ARTUSI Due fatali uova alla coque

Artusi novantunenne girava quella mattina per la sua casa di piazza d’Azeglio a Firenze, in camicione lungo, insultando la cameriera sdentata. Eppure la solenne barba bianca, la maniera calma di urlare l’improperio, il contegno, ne facevano perfetta immagine di biblico patriarca. Ed in effetti aveva scritto pure le sue tavole della legge; che per la verità erano un libro, e inoltre di cucina. Ma era toccato a Pellegrino Artusi di vivere in epoca di attenzioni esclusive all’economia, dunque attenta anche alle minuzie del vivere più sostanziale e del nutrirsi. Tenuta in conto questa decadenza dell’epoca comunque egli vi occupava in Italia parte preminente. E infatti si guadagnò la gratitudine di tutte le giovani spose italiane a modo. Le quali però quella mattina si sarebbero un poco turbate. Giacché egli, così agghindato, s’era appena accorto che le due uova fresche che mangiava alla coque non erano state preparate a dovere. Aprì la latta dove le si doveva aver messe assieme ai tartufi, per profumarle, e vistola vuota, aveva preso a urlare. Anzi per dirla tutta stava per dare un gnocchino ovvero un cazzotto sulla testa della serva, quando il mondo gli si fermò intorno. Gli parve d’essere più alto. Non si accorse subito di essere morto. Piuttosto fu attratto a vedere lo spazio della sua vita svolgersi in simultaneo tempo inverso.
Perciò colui che s’era guadagnato la gratitudine delle spose e dei mariti, spiegando «cose diverse e necessarie al vitto» quel 30 marzo del 1911, rivide tutto. Per esempio come senza darsi a speculazioni azzardose, si era ben arricchito col commercio serico e s’era presa l’amante: Fiorella. Ma doveva guardarsi pur sempre dalla servitù di canaglie che gli rubava le posate d’argento. La cameriera e il cuoco di Bologna e la governante lunatica, che tenne per diciassette anni a freno solo a forza di brusche maniere. E però con ogni delicatezza scrisse nel 1891: «La scienza in cucina e l’arte del mangiar bene», che stampò a sue spese in quattordici edizioni. Dovevano ogni volta essergli richieste al suo indirizzo. Aveva scritto prima un libro sulle lettere del Giusti e nel 1878 addirittura una vita di Foscolo. Chino su quel suo bancone dove lavorava ma studiando le lettere e le scienze; per decenni in riuscita pausa erotica. Si curava tuttavia sempre bene gli occhi con le pillole di Cooper e l’acqua marziale. Anche quel mattino del 17 aprile del 1859 quando risentì quello che era stato il più grande dolore della vita, la perdita di sua madre. Ma in quel tempo panoramico non ebbe più maniera di addolorarsene. E ritornò pure quella sera del 25 gennaio 1851, quando era a Forlimpopoli e stava scrivendo a un commerciante di Ancona. Qualcuno bussò. Era l’avvocato Ricci, e il padre gli aprì di malincuore. Ma dietro costui, minacciato, entrarono gli assassini che spinsero via suo padre e lo fecero svenire: era quella la banda di Stefano Pelloni, detto il Passatore, perché passava una barca su un fiume della bassa Romagna. Dopo aver assaltato il teatro dilagarono per le case del paese, e per abbonirli Artusi dovette dar loro tutti i valori di casa. Ma atterrarono pure la porta delle sue sorelle per dare sfogo alla loro libidine. Allora resistette. E così una delle sue sorelle per difenderlo si prese una coltellata tra cranio e capelli. Rivide ancora la faccia crudele di chi li comandava: l’infame prete Valgimigli. Ma intanto Gertrude, la più bella delle sue sorelle, dopo essere stata già manomessa e contaminata, era fuggita pei tetti. Finì in manicomio. Ecco perché scelse di vivere per sempre a Firenze. Ma si disvolsero anche immagini quiete, di viaggio. A quei tempi in sette giorni e per sette scudi i vetturini vi portavano dalla Romagna a Roma, e di là ai tempi di Pio IX viaggiò fino a Napoli, dov’era un’infima plebe che non si curava del domani. Era cosa molto caratteristica vedere là nei mercati «una gran caldaja di maccheroni bollenti».
Lusingato dalla rinomanza di quel cibo non vide l’ora di mangiarli; ma fu deluso dal loro modo di condirli con molto pepe e cacio piccante. Meglio i tortellini e il lesso rifatto. Ritornò nelle Romagne nell’imminenza di una nuova invasione austriaca, quando gli elementi turbolenti e malefici prevalsero, e ne seguirono delitti a iosa. In nome di Mazzini furono molti i trucidati dai settari. Perciò nel 1849 il padre lo aveva mandato sempre più spesso lontano a vendere la seta tirata. Fu una provvidenza perché studiò meglio le lettere. Quindi si rivide più giovane, nel suo carattere pronto all’ira e facile alle bravate, ma d’eccessiva sensibilità: le parole gli rientravano in gola. E riebbe accanto il maestro Buscaroli, mentre lo erudiva nel galateo di Melchiorre Gioia, e a imparare a memoria l’Inferno e il Purgatorio di Dante. Migliorò di molto la calligrafia quando andò apprendista da un negoziante a Livorno. Ma aveva ereditato dalla natura istinti erotici quasi infrenabili, per i quali, s’accorse, quasi non s’era rovinato la salute e il resto. Non fosse stato per mamma, caritatevole che appena vide quanto la servetta di casa cominciava a ingrossarsi spese molto per accomodare la cosa. E però perché non aveva sposato la Teresa? Lei che aveva incontrato, bellissima, al mercato dei bozzoli di Mendola, molto pazzamente di lui innamorata? Era stata la gran timidezza l’incubo della sua vita: non si dichiarò. Neppure rivedere la grandine di scappellotti che il padre gli diede, perché bambino dal calzolaio aveva raccolto una coccola di quercia lo tolse dal suo distacco. Vedeva ormai tutto svolgersi come da dietro un vetro, libero di sentimenti. Nel ’31 sentì le fucilate che uccisero due soldati. E il nonno finì in prigione perché papalino, ma lo aveva salvato suo padre liberale che dopo però fu salvato da nonno quando arrivarono gli austriaci.
E si ricordò, o meglio venne ricordato in quello scorrere di tutto, di molto altro ancora: del tamburello e di quando infante gli cascarono i capelli per la febbre tifoidea; e di quella convalescenza nella quale sì gustò sapori mai più sentiti; e dei gran tuffi nel mare dopo la fiera di Senigallia. La prima grande città che vide fu Bologna; e però gli fece più senso di vedere sulla porta di Pesaro due teschi purulenti che erano state teste di assassini. Si ricordò anche l’anno del nevone, quando due persone per strada non si vedevano mica. Nel 1828 gli piacque molto il dormire all’aperto per i terremoti. Ed eccola ancora prima, o dopo, dovendo giudicare al modo dei viventi, la sua balia. Mentre per insufflargli nel sangue non so che virtù gli faceva ingoiare da lattante un cuore di rondine estorto dalle viscere palpitanti.

Maschio superstite tra sette sorelle, la mamma gli aveva voluto dare il nome di uno zio canonico e miope, che per questo difetto cadde in un precipizio. Non lontano da Forlimpopoli; dove Artusi si vide nato il 4 di agosto 1820, da Agostino e Teresa Giunchi di Bertinoro; la prima e l’ultima che rivide, e che come i suoi lettori gli sorrise.

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