Ma non vi sfiora il sospetto che «il grande silenzio» degli intellettuali sia dovuto al fatto che non hanno più niente da dire? Si celebra in quest’autunno il trentennale della loro decadenza e il ventennale della loro caduta, insieme al Muro di Berlino. Da quel tempo si narra del silenzio degli intellettuali e del loro isolamento. Il pensiero muore con la fine della modernità, celebrata da Lyotard e poi da Vattimo trent’anni fa. La storia svanisce con il Muro di Berlino, vale a dire un ventennio fa, come scrisse allora Fukuyama. Lungo il secolo è stato tutto un susseguirsi di cannibalismi: il libro sopraffatto dal giornale, il giornale dalla radio, la radio dalla tv, la tv da internet e via dicendo. E così il teatro sopraffatto dal cinema e il cinema dal video e dalla musica rock. Via via la cultura si è ritirata a vita privata e gli intellettuali si sono fatti marginali.
A celebrare la loro scomparsa è venuto un brontosauro degli intellettuali organici «destinato all’estinzione», come egli stesso dice: Alberto Asor Rosa in un libro intervista con Simonetta Fiori (Il grande silenzio, appunto, uscito da Laterza, pagg. 181, euro 12). Barone rosso, ideologo del Pci e del ’68, accusato poi di essere il grande vecchio delle Br, autorevole critico letterario. A suo merito opere come Scrittori e popolo nel 1964, ed altri scorci autobiografici più recenti, compresa una confessione di nichilismo & apocalissi. A suo demerito il ruolo di cattivo maestro dell’operaismo che non disdegna la violenza purché «progressiva» (lo ribadisce anche in questa intervista); che non si smuove da un comunismo utopistico e settario che potremmo definire aristocomunismo (un altro autorevole compagno è Luciano Canfora, un altro è Leone de Castris, aristocratico anche dal profilo genealogico), nutrito di uno sprezzante manicheismo. Noi ne parliamo lo stesso, perché a differenza di Asor Rosa e degli intellettuali come lui, crediamo alla civiltà del dialogo e preferiamo leggerlo e criticarlo, anziché ucciderlo col silenziatore (a proposito di grande silenzio... ). Invece Asor Rosa preferisce cancellare o demonizzare il nemico.
Cosa emerge in questa intervista-congedo? La tesi vetero-operaista e vistosamente infondata che l’intellettuale nasce con il capitalismo; il rimpianto aristocratico delle vecchie élite del passato e della saldatura tra oligarchie e intellettuali; l’assurdo alibi che i comunisti restarono stalinisti a causa delle censure fasciste (i comunisti furono devoti a Stalin fino alla sua morte e oltre, diversi anni dopo la caduta del fascismo); l’asservimento totale della cultura al Pci, con storie di incredibile obbedienza al Partito: «Se Togliatti indicava una strada bisognava seguirla. Senza discussioni». E ancora: dopo alcune sue timide obiezioni un alto dirigente comunista tuonò: «Ci vogliono i campi di concentramento!». E obbligandolo a candidarsi, fu detto al Barone Prof. Asor Rosa: «In questo partito un iscritto non discute i deliberati della direzione. Ubbidisci e basta!». E l’illustre professore ubbidisce e «scatta sull’attenti come una recluta». Il bello è che Asor Rosa rimpiange quell’epoca: «Almeno un certo ordine c’era». L’ho sentito dire anche a vecchi fascisti.
Ma che credibilità potevano avere questi intellettuali così arroganti all’università e con chi non la pensa come loro e così servili e acriticamente ubbidienti con il Partito? A proposito del fascismo, Asor Rosa accetta di passare, come egli stesso dice, per «il più agguerrito neo-revisionista» arrivando a riabilitare il fascismo rispetto a Berlusconi. «Da tutti i punti di vista il berlusconismo è peggio del fascismo»; il fascismo, dice, era almeno dentro una tradizione nazionale, aveva un rapporto stretto con il risorgimento. Il berlusconismo no, svuota le idee dell’avversario e nega tutto, Resistenza inclusa, facendola propria. E vi risparmio la solita analisi sulla dittatura populistica o la democrazia totalitaria, che corrompe dentro e distrugge fuori. Torna antifascista quando dice che dietro il fascista più onesto c’era l’olocausto (che però quel fascista ignorava); ma dimentica di dire che dietro il partigiano comunista più onesto c’erano i gulag e un sistema totalitario che il fascismo solo si sognava... Obiezione elementare, ma vera.
Infine Asor Rosa si attacca ai prof, alla scuola, ai libri di testo ritenendoli - credo con ragione - l’ultima Stalingrado del comunismo e dintorni (lui dice «l’ultimo baluardo»). Ma non senza ammettere che il progetto comunista e sessantottino è fallito: «La quantità ha soffocato la qualità», fu cancellato il merito. Parole sagge dopo un magistero dissennato.
Chiudendo il libro, torno al titolo e dico: ma gli intellettuali non sono stati ridotti al silenzio. Sì, siamo in una società di massa, volgare e mercantile, dove le idee e la cultura non contano, le merci prevalgono sui pensieri, gli intellettuali sbiadiscono. Però, quella poderosa corazzata che ha esercitato l’egemonia, dal ’68 in poi, quali opere memorabili ha prodotto negli ultimi trent’anni? Poco o nulla. Eppure aveva in mano il potere editoriale e culturale. Ma non ricordo nessuna opera essenziale, nessun nuovo pensiero, nessuna grande fioritura. Tra le ultime opere notevoli, la dichiarazione di decesso del comunismo firmata da Lucio Colletti, comunista pentito, sul tramonto dell’ideologia. Poi il nulla. In filosofia, in letteratura, in cultura politica, in storia. Se qualcosa è emerso, oltre i ripescaggi del grande pensiero novecentesco, quasi tutto conservatore, reazionario e protofascista, è stato fuori e contro quell’egemonia della sinistra.
Da qui il sospetto che il grande silenzio degli intellettuali sia dovuto principalmente al fatto che non avevano più nulla da dire e quel poco che potevano dire, non hanno avuto il coraggio di dirlo.
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