Politica

Attentato al patrimonio

Carte in tavola, senza infingimenti, su una questione essenziale come la tassazione del risparmio. Non ha senso ed è sbagliato aumentarla: più che un errore sarebbe un delitto da ogni punto di vista.
Abbiamo bisogno di capire quali sono i programmi, le scelte e soprattutto le conseguenze implicite degli schieramenti che si contenderanno il governo dell'Italia. È bene che siano alternativi, ma per questo dobbiamo saperlo nitidamente. La politica fiscale, è una cartina di tornasole. Appena qualche giorno fa l'on. Bertinotti s'è lasciato scappare con un sorriso: «Non parliamo di patrimoniale, se no chissà cosa succede...!». L'estrema chiarezza con cui il presidente del Consiglio ha parlato della politica fiscale è quindi, in primo luogo, un contributo esemplare anche nel metodo alla trasparenza di una competizione democratica decisiva. Specialmente su un tema dove troppi barano e molti si sbagliano.
Berlusconi ha escluso qualsiasi intervento sulle rendite finanziarie, cioè su un fantoccio demagogico del quale si discute, allo sbaraglio, anche all'interno della maggioranza. Più in generale, il premier ha assicurato: «Non tasseremo mai Bot e Cct, non incrementeremo la tassazione sul risparmio, non introdurremo imposte sul patrimonio».
Partiamo dalla questione delle «rendite finanziarie», dove una manipolazione (o una confusione) semantica, cioè sul significato dei termini, intorbida le acque. Tecnicamente le rendite finanziarie sono un coacervo di interessi o guadagni di capitale sul risparmio interno od estero investito in strumenti finanziari a diverse scadenze. In un sistema capitalistico di mercato, come è o come aspira ad essere il nostro, si tratta di elementi essenziali per il suo funzionamento nell'età della globalizzazione e, in Europa, del mercato unico. Hanno la stessa natura dei prezzi, che non si possono manipolare a piacimento. Riguardano sempre, in ultima analisi, l'offerta e la domanda di risparmio, la cui destinazione è l'investimento in senso reale: cioè la condizione prima della crescita. Ma non si tratta affatto di «rendite economiche» in senso vero, le quali sono invece gli extra-guadagni dei fattori della produzione non soggetti a concorrenza per scarsità naturali o (come accade spesso in Italia) per protezioni e barriere di vario genere. Queste, dunque, sono le rendite da combattere e si combattono in un modo solo, con la concorrenza. Per quelle finanziarie si gioca invece, anche in buona fede, sull'equivoco: con il suono negativo della parola.
Si pensa che sia «giusto» o magari «bello» non solo tassarle, ma aumentarne la tassazione, come gesto simbolico di sensibilità sociale, persino sapendo che questo incrementerebbe in misura trascurabile le entrate fiscali. Mentre è evidente che non è «giusto» né «bello» e tanto meno socialmente utile tassare il risparmio. Sarebbe anzi controproducente, a caro prezzo, se non altro perché non farebbe che aumentare, per lo Stato, il costo di un debito pubblico ancora enorme, per metà finanziato dall'estero sui mercati internazionali, i cui interessi sono pagati con le imposte di tutti i contribuenti, rendendo ancora meno appetibile l'Italia (che già è in fondo alle classifiche) nell'afflusso di capitali. Decisamente l'incontro fra demagogia e superficialità economica può giocare brutti scherzi.
Tanto più che non viviamo certo in una società di rentier ottocentesca - e se lo fossimo dovremmo uscirne al più presto - nella quale la distribuzione del reddito poteva essere fortemente influenzata da politiche a favore dei ricchi detentori di titoli di Stato. Siamo un popolo di piccoli risparmiatori e di famiglie operose. In realtà la politica fiscale e la questione complessiva della tassazione del risparmio impongono scelte nette e affidabili su un piano ben più vasto e concettualmente radicale: di qua o di là. Potremmo addirittura dire che, in linea di principio, il risparmio volontario privato in quanto tale - fra l'uomo «dilapidatore», l'uomo «conservatore» e l'uomo «risparmiatore» (come li classificava Luigi Einaudi nelle sue Lezioni di politica sociale) - non dovrebbe essere tassato, a rischio di una doppia imposizione sul reddito e sui suoi frutti, utilizzati per gli investimenti dalle imprese o dal settore pubblico (fosse sempre vero!).
Per le esigenze di crescita della società l'alternativa al risparmio volontario sarebbe da un lato il risparmio obbligatorio, a cominciare dal prelievo forzoso oltre certi limiti con l'imposta sul reddito del cittadino, e dall'altro l'impiego pubblico delle risorse. Ma questo andrebbe in direzione della sostituzione di un tipo collettivistico di organizzazione della società economica a quello di mercato. Ipotesi non teorica, bensì già pericolosamente sperimentata in parte anche in Italia. Perciò la scelta dovrebbe essere nitida, sapendo che i pasticci demagogici un po' di qua e un po' di là sarebbero il peggio del peggio.

Se Bertinotti fa bene a tacere, e si capisce, Berlusconi ha fatto benissimo a parlare chiaro.

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