Politica

Attilio Piccioni, un padre della patria dimenticato

Costituente, braccio destro di De Gasperi e riformatore. Un libro racconta la storia del politico che contribuì a salvare l'Italia dal comunismo, a «riconquistare» Trieste e a far nascere la Cee e che viene ricordato solo per il «caso Montesi».

ROMA - È ricordato solo per il «caso Montesi», ma c'è un protagonista della politica italiana, fondatore della Dc che merita un luogo della memoria più nobile. Si chiamava Attilio Piccioni e a 35 anni Rubbettino gli ha dedicato una completa monografia a cura di Gabriella Fanello Marcucci («Attilio Piccioni - La scelta occidentale, 523 pp., 22 euro).
Un lavoro molto difficile di ricostruzione storica giacché Piccioni non ha lasciato un archivio personale e quindi la sua figura è stata ricomposta attraverso documenti ufficiali della Democrazia Cristiana, della Costituente e, ovviamente, dagli atti parlamentari.
Nono di dieci figli, Piccioni nacque nel 1892 a Poggio Bustone, in provincia di Rieti, da due insegnanti e si trasferì a Torino nel 1910 per studiare giurisprudenza. Nel capoluogo piemontese si avvicinò alla politica scegliendo il moderatismo del nascente Partito Popolare Italiano del quale diverrà segretario cittadino nel 1920. Fondò anche una rivista «Il pensiero popolare» creando un vivace dibattito con «L'Ordine nuovo» di Gramsci e Togliatti e con «energie nuove» di Piero Gobetti. L'argomento di confronto sono i moti operai di inizio secolo e gli scritti di Piccioni mettono in evidenza una secca presa di distanza dalle violenze e dal teppismo degli operai, ma anche l'idea di uno Stato che debba «integrare» l'iniziativa privata.
Una tale formazione politica lo metterà ovviamente in forte contrasto con il fascismo del quale stigmatizzò sempre il carattere antidemocratico. Contrario all'Aventino e costretto a rinunciare all'attività politica dopo il 1925 contribuì a formare il nucleo della futura Dc trasferendosi a Pistoia e rimanendo in contatto con il gruppo dirigente costituito, oltre che da De Gasperi, tutto da avvocati: Scelba, Spataro, Zoli.
Piccioni fece parte dei governi unità nazionale dal 1945 in poi. E nella Consulta nazionale, l'organismo pre-costituente si batté in favore del ritorno al sistema proporzionale. Non certo per amore del consociativismo al quale si oppose nei periodi del centrosinistra, ma perché riteneva quel metodo elettorale connaturato alle democrazie occidentali europee. Analoga enfasi pose sul referendum istituzionale per consentire ai cittadini di esprimersi sulla forma-Stato senza che fosse demandata alla mediazione dei partiti una decisione così importante.
Nella Costituente che Piccioni diede il meglio di sé in quanto entrò a far parte del Comitato dei 75 che ne redasse materialmente il testo. È grazie alla sua opera che l'autonomia regionale è stata riconosciuta nella Carta. se non si può parlare di federalismo, di sicuro Piccioni, come tutti i degasperiani, possedeva una visione non oppressiva dello Stato e dunque ne voleva un'articolazione quanto più vicina al cittadino e alle sue istanze.
Degasperiano di ferro fu un prezioso coadiutore e consigliere dello statista garantendo che le sue formulazioni trovassero concretezza politica. Anche per questo lo sostituì alla segreteria politica della Dc dal 1946 al 1949. Da segretario democristiani gestì la fatidica campagna elettorale del 1948 battendosi con coraggio contro il pericolo comunista. È anche merito di personaggi come Attilio Piccioni se l'Italia non diventò un satellite dell'Unione Sovietica. Celebre un suo discorso a Genova. Cosa accadrebbe se vincesse il Fronte popolare? «Ciò che è accaduto in Cecoslovacchia dove una minoranza si è impadronita delle leve del comando del Paese». La «nuova forma di democrazia» propalata dai comunisti consiste «nell'imporre volontà faziose che stanno a capo delle masse» e questa non è democrazia!». La scelta occidentale, secondo lui, è l'unica che può garantire l'indipendenza dell'Italia e l'unità nazionale.
Altra battaglia politica, purtroppo persa, fu quella per evitare il correntismo. Nel congresso del 1949 la parte centrale del suo intervento fu dedicata ai fermenti della sinistra del partito. «Noi facciamo dell'anticomunismo perché questo costituisce il tentativo più colossale di strappare per secoli la libertà dal cuore degli uomini», disse. E allo stesso modo invitò il partito a non perdersi dietro l'illusione che dietro i comunisti ci fossero le massi lavoratrici. «Tocca a noi non confondere gli interessi veri delle classi lavoratrici con l'anticomunismo ed è quello che la Dc sta facendo, con estrema fatica», aggiunse.
Nei governi De Gasperi della prima metà degli anni '50 fu valido vicepresidente e ministro della Giustizia. Riforma agraria, piano Marshall e sganciamento della magistratura dalla pubblica amministrazione sono tra i provvedimenti che egli contribuì ad attuare.
La guerra con la «sinistra» gli nocque quando gli fu affidato il compito di formare il governo dal presidente Einaudi nel 1953, fallito l'ultimo tentativo di De Gasperi. Fu proprio Fanfani a «impallinare» quell'esecutivo che non vide mai la luce. Ma Mario Scelba, che alla fine risolse quella crisi, gli affidò il ministero degli Esteri. E lì Piccioni fornì l'ultimo grande contributo alla storia italiana impegnandosi per la nascita della Cee e per il ritorno di Trieste italiana. Quel grande merito però non gli potè essere ascritto perché nel settembre 1954 fu costretto alle dimissioni del caso Montesi. Quella magistratura, che aveva voluto indipendente, si rivolse contro il figlio, il musicista Piero accusato ingiustamente di un delitto, costringendolo alle dimissioni.

Ma era stato Piccioni, trattando con il segretario di Stato Usa Foster-Dulles e col ministro degli esteri britannico Eden a evitare che Trieste fosse persa per sempre.

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