
"È fondamentale togliere l’acqua alla propaganda jihadista». Questa la lettura che Elettra Santori dà dell’ingresso dell’imam nel carcere minorile Beccaria di Milano. Lei, jihadologa e consigliere scientifico della Fondazione Icsa (Intelligence Culture and Strategic Analysis), conosce bene le vie della radicalizzazione e sa che in un istituto di minori, soli, ribelli e fragili, c’è terreno a sufficienza perché cresca il fanatismo islamico.
Che ruolo svolge il carcere nei processi di radicalizzazione?
«Il carcere è uno dei luoghi per eccellenza della radicalizzazione ’faccia a faccia’, più delle moschee e dei luoghi di preghiera. L’altra via prioritaria è quella dell’autoradicalizzazione online. Anche se ormai, visto il tempo che si trascorre su internet, tra offline e online non c’è quasi più separazione, esiste un’unica bolla onlife in cui il virtuale fagocita la vita reale. Dal punto di vista della radicalizzazione, questo significa che i soggetti fragili, in specie minori, che entrano in questa bolla non distinguono più il reale dal virtuale e si trovano a commettere reati senza neanche rendersi conto di quello che stanno facendo».
L’età della radicalizzazione si sta abbassando?
«È un fenomeno evidente. Si stanno intensificando le notizie di minori arrestati per attività con finalità di terrorismo, che a loro volta possono introdurre nelle carceri dei focolai di contagio jihadista. C’era dunque bisogno di un intervento specifico per le carceri minorili, come quello pensato per il Beccaria».
Le logiche interne al carcere - violenza, rivalità tra gruppi, ricatti - possono favorire i processi di radicalizzazione?
«Certamente, come anche il sovraffollamento, che crea divisioni tra gruppi in competizione tra loro per dividersi le scarse risorse disponibili. Sono tutte situazioni che inducono i detenuti più deboli a cercare protezione presso i soggetti più carismatici. Ed è allora che emergono gli individui più estremisti e con capacità di leadership, anche religiosa, che si propongono come guide morali e spirituali per i più vulnerabili».
La fragilità personale dei detenuti può aumentare il rischio radicalizzazione?
«In carcere il detenuto va incontro a un vuoto identitario che soggetti ultra-radicalizzati possono sfruttare per veicolare la narrativa jihadista. Questa condizione di fragilità personale è tanto più acuta nei minori detenuti, in cui alla vulnerabilità della detenzione si aggiungono le fragilità dell’adolescenza».
Come può venire accolto dai detenuti musulmani un imam nominato con l’avallo delle autorità?
«Chi è ultra-radicalizzato, magari da lungo tempo, e ha esperienze di attività terroristica alle spalle, potrebbe vedere in un imam di nomina
pubblica una figura non credibile, il rappresentante di un islam corrotto e occidentalizzato. I minori radicalizzati però sono stati esposti per un tempo minore al verbo jihadista, quindi sono tendenzialmente più recuperabili».