"Mia moglie", stop alla vergogna social

Chiuso il gruppo Facebook: gli utenti pubblicavano foto delle partner senza consenso

"Mia moglie", stop alla vergogna social
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Cosa spinge migliaia di uomini a condividere pubblicamente foto delle rispettive mogli scattate di nascosto? È la domanda che si fanno in tanti, dopo che è stato aperto il vaso di Pandora del gruppo Facebook «Mia Moglie». Sarà la sociologia ad occuparsene. Ma intanto, dopo un tam-tam di segnalazioni, nelle scorse ore Meta ha chiuso quella community con oltre 30mila iscritti che pubblicavano immagini intime delle mogli, o presunte tali, a loro insaputa. «Violazione delle policy contro lo sfruttamento sessuale di adulti», la motivazione della chiusura da parte della società di Mark Zuckerberg. Donne in costume da bagno, che cucinano o che si rilassano sul divano: nel gruppo c'era di tutto. Scatti rubati. Ognuna di quelle donne era stata immortalata senza consenso ed è diventata allo stesso tempo vittima e inconsapevole protagonista della pubblica piazza virtuale del social più diffuso al mondo.

Il faro sul gruppo «Mia Moglie» è stato acceso dall'organizzazione no profit «No Justice No Peace» che da mesi sta portando avanti la campagna «Not all men», dove chiunque può inviare la propria storia di violenza. «Condividono foto intime delle proprie mogli senza il loro consenso, cercando approvazione e complicità in questa violenza», aveva denunciato l'associazione invitando gli utenti a segnalare il gruppo a Meta. «È una palese forma di abuso, pornografia non consensuale e misoginia sistemica. Chi partecipa a questo scempio è complice di un crimine». Ben presto il gruppo è stato riempito di commenti di persone indignate per la condivisione di foto intime al femminile, mentre sulla pagina pubblica qualche commento avvertiva i frequentatori - quasi tutti anonimi di denunce fatte alla Polizia Postale. C'è stato anche chi ha contattato le partner e i parenti dei partecipanti stessi.

Ad associarsi alla denuncia anche il gruppo del Pd nella Commissione Femminicidio e violenza del Parlamento. «È l'ennesima prova di una violenza digitale strutturale che affonda le proprie radici nella stessa cultura patriarcale del dominio che ha consentito per dieci anni lo stupro di Gisèle Pélicot, a partire proprio da un gruppo online simile a questo», ha detto Roberta Mori, portavoce nazionale della Conferenza delle Donne Democratiche. Poco dopo lo tsunami, è arrivata la chiusura. «Non consentiamo contenuti che minacciano o promuovono violenza, abusi o sfruttamento sessuali sulle nostre piattaforme - ha affermato un portavoce della società americana -. Se veniamo a conoscenza di contenuti che incitano o sostengono lo stupro, possiamo disabilitare i gruppi e gli account che li pubblicano e condividere queste informazioni con le forze dell'ordine».

Una piccola vittoria, fino all'apertura di altre pagine simili. D'altronde non si tratta di un caso isolato e gli utenti hanno già segnalato, oltre alla nascita di un gruppo «di riserva», anche l'apertura di un canale Telegram.

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