Un’audace «Norma» fra i monaci buddisti

da Macerata

Appena entrato nello Sferisterio di Macerata, lo spettatore capisce subito che quella cui sta per assistere non sarà una Norma come tutte le altre. Alle spalle d’un tempietto neoclassico, sormontato da un tripode in vago stile hitleriano, si stagliano infatti due enormi svastiche. Tranquilli: Massimo Gasparon - regista, scenografo e costumista del capolavoro belliniano che da sabato sera arricchisce l’interessante cartellone dello Sferisterio Opera Festival - è troppo intelligente per ricorrere alla balzana idea di scaraventare la storia della sacerdotessa druidica in pieno Terzo Reich. Le svastiche in questione sono quelle (molto più antiche, e cui il Fürher s’ispirò, invertendone però il significato) della cultura orientale tantrica. E sui parallelismi tra il mondo dei galli, dove l’opera è originariamente collocata, e quello tibetano - stessa origine nordica, simili spiritualità e divisione in caste - si gioca tutto questo audace allestimento. Con tutti i rischi del caso.
Il comune spettatore, infatti, già perplesso davanti a quelle svastiche e poco propenso a leggere l’esauriente saggio con cui, sul programma di sala, Gasparon ne spiega la presenza, può trovarsi disorientato da quello che vede subito dopo: al posto di sacerdoti e guerrieri barbari ecco sfilare infatti monaci buddisti, nei conosciutissimi colori rosso, arancio e giallo. Quando poi li sente cantare - proprio loro, simbolo di pace e mansuetudine - bellicose grida di «Guerra, guerra!», il pubblico ha il sospetto di assistere ad una contraddizione in termini. Gasparon, del resto, sa muovere masse e colori con sorvegliato gusto, sa imporre ai cantanti composte movenze ieratiche, sa condurre insomma lo spettacolo ad un complessivo risultato di eleganza espressiva, tale da garantirsi il successo. Mentre la parte musicale fa il suo dovere: al centro di questa cornice campeggiano infatti due dive del calibro di Dimitra Theodossiou e Daniela Barcellona; Norma scultorea nel fraseggio e «piccola» negli acuti la prima (ma sa compensare con equilibrate mezze voci, riservando la veemenza del personaggio soprattutto alla recitazione); Adalgisa corposa e vibrante la seconda. Fasciate da splendidi costumi di ispirazione neoclassica, sostenute dal saldo controllo del direttore d’orchestra Paolo Arrivabeni, le due conquistano subito la scena, dando il meglio nei momenti di maggiore e lunare malinconia: la «Casta Diva» della Theodossiou è lineare e pure palpitante; l’appassionato duetto fra le due rivali nel primo atto vede invece primeggiare una struggente Barcellona.

Accanto alle due star il dignitoso Pollione di Carlo Ventre (coraggiosissimo ad andare in scena nonostante un piede fratturato). A scatenare l’entusiasmo conclusivo del pubblico, un finale di grande effetto: l’ascesa al rogo della sacerdotessa e del suo amante fin dentro un trascinante gioco di luci e di fumi.

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