È a una vittoria che fa cenno, discretamente, il titolo dell’ultimo romanzo di Aurelio Picca, e lo fa senza accenti di vuoto trionfo ma lasciandosi sorprendere da una speranza improvvisa mediante un «se...» che finalmente non introduce soltanto una difficoltà, un’impasse, ma una luce possibile, come di chi seduto nel buio della notte si giri d’un tratto verso est, non perché stia nascendo il giorno ma perché è più importante sapere che il giorno può nascere ogni giorno, ogni istante.
Se la fortuna è nostra è il titolo di questo romanzo edito da Rizzoli (pagg. 240, euro 18) e la fortuna, il tesoro, si svela immediatamente al lettore, perché il libro non è la ricerca di un tesoro, non ci sono isole da scavare, fiumi da dragare, non è qualcosa che verrà trovato solo alla fine: la fortuna agisce subito, e il romanzo è la forma di questa azione. Ma qual è la vera fortuna per un uomo? È una sola: quella di poter vivere. Ma per vivere bisogna esserci tutti interi, senza sconti.
Il romanzo si apre su un risvolto autobiografico, una colite che affligge lo scrittore (e anche il suo medico): un episodio insignificante, che serve a Picca per introdurre una riflessione chiave, fulminante, sulla natura del male: il male non è male perché «fa» male, ma perché non ha senso, è inutile. Il dolore fisico si traduce per molto tempo in una sorta di impossibilità creativa, dovuta a questo pezzo di vita, di corpo, di mistero che non si vuol lasciare raggiungere da alcun senso, ed è solo sangue, putredine, caos. E se, invece, questo disturbo non fosse altro che un messaggio destinato a lui e scritto in una lingua resa incomprensibile solo dai pregiudizi, dalle convenzioni, da tutto il «già detto», il «già saputo» che sempre tutti noi anteponiamo alla puntura, al morso delle cose?
Così il sangue comincia a parlare, a raccontare.
È il sangue proprio ma è anche il sangue della stirpe, degli antenati, dei morti che si avvinghiano ai vivi e non se ne vogliono separare, perché così è fatta la nostra memoria, è una convivenza di vivi e di morti. Ma per stare all’altezza di questa convivenza, per poter partecipare alla festa occorre molto coraggio, occorre non omettere nulla di se stessi, non prendere la parte «buona» lasciando da parte quella «cattiva». La letteratura è scandalo, il romanzo è scandalo, ma il lettore sappia che non è scandalo solo per lui: lo è stato, prima, per lo scrittore. Il grande scandalo della letteratura davanti al mondo è l’apparire di un uomo intero, senza sconti, che non si può interpretare ma soltanto amare, o respingere. Il romanzo non è un genere letterario, ma soltanto un modo per rendere vivibile la vita, per rendere abitabile il mondo.
Il sangue che esce dal corpo del protagonista acquista la parola nel momento in cui non è più solo il suo sangue. C’è una casa, c’è un pezzo di campagna e c’è un nonno alto ed elegante, che al nipote adolescente impartisce un ordine: tu dovrai un giorno raccontare la mia storia.
L’opera di Aurelio Picca si configura da sempre come una lunga serie di variazioni sul tema del Bildungsroman, del romanzo di formazione. Ciò che sorprende in lui è la capacità di riaprire i conti con la formazione, che è la sola cosa definitiva dell’uomo (l’uomo è il suo diventare-uomo). E la storia del nonno si lega a quella del nonno del nonno, il cui nome, Arcangelo, richiama in una modalità tutta carnale l’idea della nostra discendenza divina. Il modo in cui Picca fa passare un tema simile nella frazione dei piccoli episodi, mescolando continuamente presente e passato, corpo e memorie, è sorprendente - non per perizia tecnica, perché Picca non ha mai avuto nessun bisogno della tecnica, lui che è il più grande stilista della nostra letteratura; non per questo, ma per una normalità, una semplicità, una ferialità che sono il massimo traguardo di uno scrittore.
La bellezza di Se la fortuna è nostra, questo dialogo incessante dell’io con la memoria (che non è ricordo, ma presenza: dei vivi e dei morti), sta nell’interezza dello scrittore che lo abita. Questa è l’impresa: Picca vi può piacere o no, ma non potete non ammirare questo suo stare tutto intero, bello e sorridente come in una fotografia sognata, dentro il romanzo. E dio sa quant’è difficile! Quanto è più semplice inventare scorciatoie, ordire una lingua piana, programmare colpi di scena, calcolare una trama avvincente, una prosa spedita, senza arricciamenti! Com’è più facile evitare lo scopo verso il quale non noi, ma la letteratura ci indirizza nella sua tirannica esigenza di verità!
Qui Aurelio non ha più bisogno di travestirsi, ci si presenta nei suoi panni, e questo perché obbedisce: al nonno, al trisavolo, al sangue. Non è più la «sua» storia che ci racconta, la storia di cui è proprietario, bensì una storia che gli viene data, consegnata. Perché non è la nostra agitazione a farci liberi: la libertà è una consegna, un compito, una missione nel senso militare della parola.
Vorrei concludere spiegando in breve perché Aurelio Picca è, di gran lunga, la penna migliore della nostra letteratura. La ragione è che lui, unico nella sua generazione (che è anche la mia) ha cercato di stringere i legami con tutta la tradizione letteraria italiana. Molti eventi, anche extraletterari, ci hanno reso pressoché impossibile un legame con i nostri padri. I nostri patrigni si possono chiamare Carver, McCarthy, McEwan, Vargas Llosa: chi si potrebbe riconoscere in Malaparte, in Pirandello, in D’Annunzio? Picca invece ha sempre sfidato i padri, rifiutando i patrigni, che accetta solo per affinità amicale (azzardo i nomi di Lowry, Lautréamont, forse Céline) ma non per immaginaria figliolanza.
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