Cultura e Spettacoli

Le avanguardie negate del pianeta Russia

Ecco a voi il pianeta Russia. Da scoprire con i suoi tesori più o meno noti e pure così poco conosciuti, dopo settant’anni di ibernazione voluta e subita nel sistema comunista e dopo la «doppia disinformazione» (dell’Est e dell’Ovest) che ne ha sottovalutato e trascurato l’importanza per la stessa vita spirituale d’Europa e di tutto il mondo occidentale, Stati Uniti d’America compresi.
Pianeta Russia, cuore pulsante delle sconvolgenti rivoluzioni moderne nel XX secolo: nelle arti (pittura, cinema, teatro, musica), nella morale, nelle più radicali ideologie politiche chiamate messianicamente a prendere il posto delle religioni tradizionali. Così ce la presenta una mostra di rara intelligenza - se ne sono viste altre, ma di minor peso - allestita nel Palazzo Ducale di Genova e aperta fino al prossimo 14 gennaio per la cura di due studiosi, Piero Boragina e Giuseppe Marcenaro, in collaborazione coi grandi musei statali di Mosca e San Pietroburgo.
«Russia&URSS 1905-1940», s’intitola l’esposizione: e non a caso, visto che la storia dell’ex impero degli zar si è identificata nel XX secolo col miraggio della patria del socialismo cui milioni di uomini di ogni razza e continente hanno per lungo tempo affidato un illusorio potere di palingenesi mondiale. Ma fu proprio la gnostica idea del «mondo nuovo» plasmato sulle ceneri dell’ordine sociale e spirituale tradizionale, ad animare tanta parte delle rivoluzioni artistiche e dei programmi estetici che precedettero in Russia il grande cataclisma dell’Ottobre 1917 (con Lenin, Trotzky, Stalin e tutti gli altri campioni del bolscevismo).
Si spiega meglio così la tumultuosa esperienza delle «avanguardie russe» e l’ondata rivoluzionaria (negli stili, nel costume, nelle innovazioni linguistiche) che influenzò tanto profondamente l’anima europea e occidentale: basti pensare ai nomi più noti di Kandinsky, Malevic e Chagall, per passare ai costruttivisti Tatlin, Rodcenko e Lissitzky, rinnovatori radicali del linguaggio grafico, fotografico ed architettonico; ai «selvaggi» Larionov, Gonciarova e Burliuk, titolari di un primitivismo tellurico anticipatore del gusto fauve ed espressionista; senza contare le affascinanti esperienze di «arte totale» immaginate e messe all’opera da un genio spettacolare del teatro quale fu Meyerchol’d , da un poeta-agitatore come Majakovskij (che prestò la sua arte declamatoria all’avventura bolscevica) e da personaggi non meno sensibili e innovatori come il regista Tairov, il coreografo Diaghilev, il genio della danza Nijinskij, la pittrice scenografa Aleksandra Ekster, e chi più ne ha più ne metta.
La fervida collaborazione tra poeti, pittori, registi, musicisti nella Russia pre e post-rivoluzionaria viene illustrata e messa in luce con precisione e accuratezza dalla avvincente esposizione di Genova che si offre così come un lucido e intenso viatico per comprendere la complessità e la forza dell’arte «rivoluzionaria» nella Russia del primo ’900. E consente di effettuare utili paragoni colmando lacune per quanti ancora erroneamente ritengono la esperienza delle avanguardie un fenomeno prettamente occidentale, mentre quest’ultima, più che sulla Senna, il Danubio o la Sprea, corrispose ad un vento che soffiò impetuoso principalmente sulla Neva e la Moscova.
Inutile per ciò fare i nomi di tutti gli artisti esposti (non senza avere ricordato poeti nichilisti e vulcanici come Chlebnikov e Krucenych, mistici e sensuali come Blok e Esenin, oltre ai formidabili maestri del cinematografo, quali Dziga Vertov e Eisenstein) poiché la mostra mette bene in luce i raccordi e i contrasti tra le diverse correnti espressive che segnarono il passaggio dalla temperie naturalista a quella decadente e simbolista fino alle influenze dell’impressionismo francese (da Serov a Maljutin, da Bakst ad Alt’man, da Kustodiev a Petrov-Vodkin).
Un fiume in piena, quello del pianeta Russia, che finì nel tritacarne della rivoluzione socialista concimandone l’immaginario in una girandola di drammatiche biografie che vanno dall’entusiasmo originario per il mito bolscevico alla tragedia della eliminazione fisica sotto i colpi del terrore staliniano.


E fa molto bene Vittorio Strada - estensore di un acuto saggio critico in catalogo accanto agli studiosi russi Tatiana Jermakova e Andrei Vorob’ev - ad osservare come il famigerato «realismo socialista», dottrina estetica ufficiale applicata nell’Urss a partire dal 1934, non sia stato solo la becera liquidazione propagandistica delle avanguardie storiche, ma per certi aspetti (vedi il moraleggiante populismo comunista di un Maksym Gorky o l’estetica rivoluzionaria «marxista e nietzschana» di Anatolij Lunaciarskij) ne fu anche un derivato ideologico, abilmente manipolato da Stalin e Zdanov come strumento di potere e di governo delle anime nel «primo stato socialista del mondo».

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