Andrea Cuomo
Strana parola «discontinuità». Parola che non promette nulla di buono, che sa di scarso impegno e inaffidabilità. Parola buona per il liceale che studia solo a maggio quando la bocciatura (ma ormai si boccia più?) sembra ineluttabile, per il calciatore che una domenica fa una tripletta e quella dopo si fa espellere. Insomma, una parola racchia, di modesto pedigree. Che pure nella nostra Regione è stata in qualche modo riabilitata qualche settimana fa, quando si insediò la giunta Marrazzo. Allora in molti si riempirono la bocca della parola «discontinuità». Con il passato, si intendeva. Quel passato che agli occhi di chi pronunciava le cinque magiche sillabe voleva dire Storace, voleva dire sprechi, voleva dire malgoverno.
Così la discontinuità divenne il toccasana, difetto trasformato in sommo pregio con buona pace di quella continuità che dovrebbe essere lanima della gestione della cosa pubblica. «Sono certo che la discontinuità con la giunta Storace sarà il segno distintivo del nuovo esecutivo regionale», disse Ivano Peduzzi, capogruppo regionale di Rifondazione comunista. «Discontinuità e alternatività indispensabili per riparare i guasti prodotti dal personalismo di Storace», ribadì nellangolo opposto della coalizione Giorgio Pasetto, coordinatore della Margherita nel Lazio. Amen.
E ora, a Marrazzo ben insediato, che ne è di quella discontinuità tanto invocata? Prego, ripassare. Si solleva la polemica sui presunti aumenti degli stipendi dello staff del presidente e come risponde lassessore alle Risorse umane Marco Di Stefano? «La giunta Marrazzo per determinare quegli stipendi si è riferito a una norma emanata dalla giunta Storace». Ohibò, e la discontinuità? Le cose sono due: o questa norma è sbagliata e va cancellata in nome della discontinuità.
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