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Ballerini: «Vita dura giocarsi il mondo in un giorno solo»

Il tecnico tira le somme di un anno di lavoro con Petacchi superfavorito per la maglia iridata oggi a Madrid

Cristiano Gatti

nostro inviato a Madrid

Un bersaglio mobile si aggira per Madrid: è Franco Ballerini, 41 anni, toscano di Cantagrillo, professione cittì. Conta poco, adesso, che in cinque anni sia riuscito nell'ardua impresa di tenere la media-medaglie del suo glorioso predecessore Alfredo Martini. In quel posto, su quel sedile dell'ammiraglia azzurra, convergono le mire e i mirini di tanti nemici, molto più subdoli e spietati dei normali avversari, perché febbrilmente interessati a rilevarne il ruolo. È la dura vita di questo singolare allenatore, che lavora dodici mesi e si gioca tutto in sette ore, quanto dura il campionato del mondo. Come un gioco d'azzardo, come una roulette russa: altissimi valori di adrenalina, o tutto o niente, o festa totale o interminabile depressione annuale. Perché la rivincita arriva soltanto dodici mesi dopo. Se arriva. Qualche volta, anziché la rivincita posticipata, arriva l'esonero immediato.
Ballerini, com'è che dicono? Bella vita lavorare solo un giorno all'anno...
«Molti lo pensano davvero. Ma non è poi così idilliaca, questa vita. A parte il fatto che una squadra si costruisce nell'arco di diversi mesi, seguendo passo passo tanti corridori. Il problema però è l'altro lato della medaglia...».
Sarebbe?
«Giocarsi tutto in un giorno significa questo: se si vince, festa grande. Ma se si perde, comincia un lungo inverno di macerazioni. Non c'è modo di riscattarsi subito, di sfogare la rabbia, di distrarsi preparando un nuovo impegno. C'è solo una chance. Non puoi sbagliare. Dopo la corsa i ciclisti tornano a casa: il cittì resta lì, solo, a risponderne per mesi».
Se Petacchi perde a Madrid il suo Mondiale annunciato, anche lei sale sulla graticola.
«Nella vita e nello sport non ci sono diritti e rendite garantiti. Bisogna sempre conquistarseli. Più sei su, più devi dimostrare di saperci stare. Il Mondiale è un esame che ricomincia, sempre più difficile».
E dire che lei ha vinto molto: a Zolder con Cipollini, le Olimpiadi con Bettini, più varie medaglie di contorno.
«Dopo Zolder, mi hanno detto: con questa vittoria, puoi vivere dieci anni tranquillo. Me l'hanno detto anche dopo i Giochi olimpici dell'anno scorso, ma guarda caso è bastato un mese perché al Mondiale di Verona tutto fosse dimenticato. Rieccoci ogni volta da capo. È un fare e disfare. Ma non ne faccio un problema: questa tensione continua è anche il lato emozionante dello strano mestiere».
Invidia mai i suoi colleghi direttori sportivi, che lavorano tutto l'anno su una propria squadra?
«La nazionale del proprio Paese è il massimo. Come lavoro, significa trovare un delicato punto d'equilibrio per un giorno solo. Non farei mai cambio. Anche se so comunque che è altrettanto affascinante costruire nel tempo una squadra e campioni tutti tuoi. Un giorno, magari, toccherà anche a me».
Quando tornerà la gloriosa Mapei, la squadra per la quale da corridore ha vinto due Roubaix?
«Non so cosa può succedere. Ma dico solo che il ritorno di Mapei, Ballerini a parte, sarebbe una grande vittoria soprattutto per il ciclismo italiano».
Ha provato più emozione vincendo lei due Roubaix o vincendo Mondiale e Olimpiadi in ammiraglia?
«Non c'è il minimo dubbio: quando rivedo i due capolavori della squadra azzurra, provo molta più gioia. È più difficile costruire una squadra che pedalare sul pavé».
I segreti del mestiere: meglio gestire un giovane o un anziano?
«Giovani o anziani, è finito il tempo degli ordini. Oggi gli atleti vogliono capire, chiedono spiegazioni. Solo se riesci a convincerli davvero, si crea l'armonia per vincere».
Tra due atleti che vanno alla stessa velocità, lei chi sceglie?
«Certamente chi ama di più il gioco di squadra».
E quando ci sono di mezzo gli amici?
«Quando si sceglie per la nazionale, non ci sono più gli amici».
I suoi nemici l'accusano di telefonare poco ai corridori, soprattutto agli esclusi.
«Mettiamola così: il telefono costa, non voglio pesare sui bilanci federali».
Che cosa ha imparato dal grande vecchio Alfredo Martini?
«A contare prima di decidere. Se c'è un problema, agire d'istinto solitamente lo amplifica.

La soluzione esiste sempre: imparando a contare, prima o poi la si trova».

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