«Banche, perdite oltre i 500 miliardi»

da Milano

Tradurre in cifre la crisi finanziaria generata dai mutui subprime è sempre stata un’impresa temeraria. Fin dall’inizio, quando le perdite stimate allora dalla Fed venivano circoscritte in circa 100 miliardi di dollari, un valore poi gonfiatosi nel corso dei mesi successivi fino a costringere l’America ad accollarsi il maxi-piano di salvataggio da 700 miliardi sul quale il Congresso mostra molti dubbi.
Ma è anche l’Europa a interrogarsi sulle conseguenze di quella che il commissario Ue agli Affari monetari, Joaquin Almunia, ha definito ieri come «la più grande crisi finanziaria dei nostri tempi» e che il finanziere Warren Buffett, nonostante i 5 miliardi scommessi su Goldman Sachs, chiama «Pearl Harbor Economica». In tutti questi mesi, Almunia non ha mai nascosto di essere preoccupato. Lo è a maggior ragione ora, nel momento in cui la delicatezza della situazione fa impallidire i 500 miliardi di perdite finora previsti da Bruxelles per banche e finanziarie. «Sfortunatamente la cifra finale sarà molto più grande», ha ammesso Almunia. Il Fmi, che aveva messo in conto un disastro globale da 1.000 miliardi, ha proprio ieri rifatto i calcoli, alzando a 1.300 miliardi la precedente previsione.
Almunia cerca di risalire all’origine dei mali finanziari, imputando quanto accaduto alla mancanza di trasparenza, unita all’incapacità dei supervisori «di mettere insieme un quadro accurato e completo della situazione: ciò ha portato a una drammatica caduta della fiducia». Ben venga dunque, sottolinea il commissario spagnolo, il piano Usa, ma ciò di cui c’è bisogno veramente è di una «soluzione strutturale e sistemica» in grado di riscrivere le regole del gioco e di impedire una nuova propagazione del virus. Seppur meno esposto ai venti della crisi rispetto agli Stati Uniti, anche il Vecchio continente paga dazio: sotto forma della «difficoltà delle banche a ricapitalizzarsi» e, più in generale, nell’aumento delle incertezze per quanto riguarda il 2009, in un contesto macroeconomico caratterizzato da «prospettive di crescita al ribasso e di inflazione al rialzo».
Almunia anticipa inoltre che l’Ecofin del 7 ottobre prossimo accenderà un riflettore sugli stipendi d’oro dei manager dei gruppi finanziari, perché il sistema di retribuzione «va rivisto». Del resto, una vera e propria legnata a ingaggi e bonus dei manager verrà inserita nel piano destinato a salvare il sistema finanziario americano. George W. Bush avrebbe infatti dato il proprio benestare alla proposta di inserire un tetto agli stipendi. Il Congresso non sembra comunque ancora intenzionato ad approvare il piano da 700 miliardi. I democratici, in particolare, avrebbero proposto di limitarlo a 150-200 miliardi. E i mercati seguono l’evolversi della vicenda con qualche apprensione. Debole dunque l’Europa (-0,5% Milano), incerta Wall Street (-0,27% il Dow Jones, +0,11% il Nasdaq).
Ieri il presidente della Fed, Ben Bernanke, è tornato a esortare Capitol Hill a dare il via libera al piano. Una risposta rapida è imposta dallo «stress straordinario dei mercati che mette a rischio la crescita economica degli Usa, che nella seconda parte dell’anno viaggia sensibilmente al di sotto del potenziale». E ai timori dei parlamentari per le tasche degli americani, Bernanke ha risposto che «il costo netto per il contribuente sarà molto inferiore a 700 miliardi».


L’Fbi sta intanto indagando su possibili frodi e malversazioni nella gestione di 26 big di Wall Street, tra cui Freddie Mac, Fannie Mae, Aig e Lehman Brothers. In particolare, l’inchiesta punta a stabilire eventuali responsabilità dei dirigenti delle società nel diffondere «falsa informazione» agli istituti di controllo.

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