
C’è stato un tempo in cui il calcio si era già venduto l’anima. Solo che magari lo faceva con più stile, glassando tutto di apparente candore. Prima che gli sceicchi guardassero all'Occidente calcistico come ad un gigantesco supermarket e che i campioni scegliessero Riad come ultima fermata di lusso, c’erano loro, i New York Cosmos. E se oggi Simone Inzaghi vola verso l’Arabia incassando una prebenda da 25 milioni all'anno, la sensazione è che la storia si stia ripetendo. Manca la poesia, certo. Ma la trama suona familiare.
I Cosmos erano la versione Seventies del sogno saudita di oggi. Una squadra costruita a tavolino, carica di stelle assolute, seppur spesso avviate verso il tramonto calcistico. Un parco giochi a stelle e strisce, anche se servì un po' di tempo per far funzionare le cose a dovere, in un paese che stravedeva per il Basket, il Baseball e pure per l'Hockey, e che vedeva il soccer relegato alla categoria di orpello praticato dai migranti.
Il progetto nasce dall'idea dei due fratelli turco-statunitensi Ahmet Ertegün e Nesuhi Ertegün, proprietari dell' etichetta discografica Atlantic Records, appoggiati economicamente da Steve Ross, co-Ceo dal 1969 al 1972 di un gigantesco gruppo editoriale tedesco (la Warner Communications). Sono questi gli uomini che ci vedono lungo, intuendo che il pallone può diventare business negli States, al pari dei fumetti o dei dischi. Certo, bisogna scalare posizioni. L'acceleratore ideale? Staccare assegni milionari per acquistare stelle.
Il nome che scompagina tutto è senza dubbio quello di Pelé. O Rei ha35 anni, ha terminato il suo percorso con il Santos ed è reduce da una truffa finanziaria che lo ha economicamente dissanguato. Così, quando i Cosmos gli sventolano sotto al naso un contratto da 4 milioni e mezzo di dollari l'anno per tre stagioni, oltre alla possibilità di diventare successivamente testimonial, non ci pensa due volte: è più di quanto abbia guadagnato fino a quel momento. "In Italia e in Spagna avrei potuto vincere un altro campionato, ma qui posso conquistare un intero Paese", dice l'astro brasiliano, pronto a diventare la prima vera rockstar globale del pallone. Anche i colori sociali lo fanno sentire a casa: dapprima il verde e l'oro, che successivamente muteranno nel bianco.
Pelé sbarca a New York e innesca la miccia. Subito dopo arrivano Beckenbauer, Carlos Alberto, Giorgio Chinaglia, Neeskens. Gente che ha vinto Mondiali, Coppe dei Campioni, titoli veri. L'ex idolo laziale Chinaglia diventerà il miglior marcatore del club, ammassando la cifra monstre di 231 gol in 234 partite. I Cosmos diventano la squadra più glamour d’America: pieni di talento e di soldi. Giocano al Giants Stadium, vendono 40mila biglietti a partita, frequentano i salotti buoni, Andy Warhol li fotografa, Mick Jagger fa tardi con loro, Steve Ross – il boss della Warner – li tratta come divi di Hollywood. Il calcio non è mai stato così pop.
E, se all'inizio tocca dipingere di verde i campi e nulla funziona - dai metodi di allenamento alla dieta dei calciatori - una volta prese le misure e copiato il modello europeo, le cose cominciano a girare. La vera differenza, rispetto al vecchio continente, è che qui girano un mucchio di soldi in più. I calciatori prendono jet privati per spostarsi, limousine quando devono compiere tragitti più brevi, vivono in attici vista Central Park e dintorni. Come il sogno di plastica arabo, ma con una città tremendamente affascinante tutto intorno, in cui perdersi. Quella squadra newyorchese, era davvero l'antenata di chi oggi - per ovviare al deserto culturale calcistico - mette sotto contratto Cristiano Ronaldo, Benzema, Kanté, Neymar, Mancini, Mourinho. E adesso anche Simone Inzaghi.

Eppure quella dei Cosmos diventa una parabola. Una sinfonia del collasso. E la storia deve pur insegnare qualcosa. Ad esempio, che puoi anche comprare i migliori, ma non acquisterai comunque la storia che manca. Nè l'amore autentico della gente. La NASL, il campionato americano, esplose come una bolla. Tanta visibilità, poca profondità. I Cosmos vinsero molto, ma intorno a loro il sistema era vuoto. Il pubblico americano, al di là dell’entusiasmo newyorkese, non capì mai davvero quel calcio. E quando Pelé si ritirò nel ’77, iniziò il declino. L'opulenta bottega chiuse nel 1985, in un pietoso silenzio, come certe serrande tirate giù dopo un paio di buone stagioni.
L’Arabia Saudita ci sta riprovando, con mezzi molto più impattanti. Ma la logica è la stessa: portare il meglio a casa propria e costruire uno spettacolo che valga l’investimento. Una vetrina globale, una geopolitica sportiva, un turismo calcistico. Solo che stavolta non ci sono Andy Warhol e le copertine di Life. Imperano le dirette streaming, i selfie da spogliatoio, le dirette su TikTok. E un calcio che, in fondo, odora di finzione. Di tournée infinita.
Simone Inzaghi con la valigia fatta è un déjà vu con molti zeri aggiuntivi, ma esiste una monumentale differenza.
Ai Cosmos svernavano stelle giunte all'epilogo della carriera. In Arabia atterrano calciatori e allenatori nel pieno delle loro facoltà sportive. Il che riesce a far apparire quell'operazione a stelle e strisce alquanto più romantica.