
Inizia tutto con un necrologio. In tv srotolano parole meste. Si tratta di un’edizione straordinaria del telegiornale, una di quelle che tiene appesi, che ti costringere a smettere di fare quello che stavi facendo: «È morto Massimo Troisi». Ma la voce del cronista ha qualcosa che non torna. È impastata, meccanica, fin troppo seria per risultare credibile. È il 1982, e Massimo Troisi, vivo e vegeto, si mette in scena da morto. Non per narcisismo, non per ironia gratuita, ma per raccontare — come solo lui sa fare — un’altra verità. E forse anche per prepararsi. O, più tragicamente, per salutare in anticipo.
Il documentario-farsa Morto Troisi, viva Troisi! — oggi restaurato e riproposto dalla Rai come un testamento artistico che sfugge al tempo che scorre — non è soltanto un esperimento televisivo perfettamente riuscito. È un luminoso capolavoro, una coreografia composta di comicità dolente, di quella napoletanità disincantata e mai caricaturale di cui Troisi sapeva essere sovrano. Non ci sono scenari cartolina, né mandolini, né canzonette in sottofondo. C’è, piuttosto, una Napoli che sorride in faccia alla morte, e alla televisione.
Il racconto comincia proprio come inizierebbe ogni funerale. Con il feretro che viene spostato, la camera ardente, e poi una processione lenta, grottesca, carica di stelle della tv. Lello Arena tira su col naso, Maria Giovanna Elmi e Anna Pavignano frignano, il cane Lassie si accuccia accanto alla bara e abbaia, anche Pippo Baudo si commuove. Benigni, nascosto dietro una vetrata, commenta acido: «Troisi era troppo televisivo, troppo amato, troppo tutto». È un teatro dell’assurdo, dentro al quale ognuno recita il proprio ruolo, ma l’unico che sembra autentico è proprio il morto. Che poi, naturalmente, gode di buonissima salute. E osserva tutto lo svolgimento da una posizione privilegiata, quella di chi sa e vede tutto, senza essere visto.
Troisi gioca con la sua dipartita quasi fosse il più comune dei divertissement. La mette in scena, la svuota, la prende in giro. Ma dietro a quel ghigno, a quella smorfia contratta da Pulcinella contemporaneo, c’è un pensiero serissimo: cosa resta di un artista quando sparisce? Tutto quello che ha fatto svanisce di colpo, o si tramanda alle generazioni successive?
Il finale del surreale documentario, che odora di epilogo e di amara profezia, è ambientato in una casa di riposo per comici, intitolata proprio al defunto: “Casa Massimo Troisi”. Ci sono Benigni, Nichetti, Verdone e Arbore impegnati a giocare a carte. Ridacchiano, scherzano, ma qualcosa sembra come come distrarli: Troisi è scomparso, ma con i soldi lasciati da lui vivono tutti meglio. «Era più simpatico da vivo», commenta Arbore, pungente.
In quel momento — lo si capisce meglio mettendo in mezzo così tanta distanza — Massimo sta edificando il suo mito. Non lo fa con la presunzione del genio, ma con la disperazione gentile di chi sa che non durerà in eterno. In fondo, Morto Troisi, viva Troisi! non è altro che il suo modo per affrontare la paura. Per esorcizzare l'appuntamento dal quale nessuno si può sottrarre. Un commiato precoce, che ancora oggi si aggira, riavviato in loop, sugli schermi delle vecchie e nuove generazioni.
Perché Troisi non ha smesso di parlarci. Lo fa con i silenzi, con quella voce che inciampa, con quegli occhi bassi che non cercano mai la camera, ma poi finiscono sempre per trovarla. Non ha mai bisogno di urlare. Napoli, con lui, non è folclore: è dubbio insinuato, malinconia luminosa, leggerezza. Un'altra città.
«Non mi piaceva fare ridere per forza», diceva Massimo. E infatti lui si adoperava per compiere un'operazione differente. Faceva pensare sorridendo. In Ricomincio da tre, in Le vie del Signore sono finite e ne Il Postino, girato con il cuore che vacillava e l'orologio che si scaricava, il suo manifesto erompe evidente.
E oggi, davanti a questo documentario che continua a prendere
controtempo per la sua genuina crudezza, che si intitola come un epitaffio ma suona come un inno, ci rendiamo conto che in fondo aveva ragione lui. Si è fatto beffe del trapasso. A distanza di così tanto tempo, è più vivo che mai.