«Ma Barack non parlerà di diritti umani»

Barack Obama parlerà ai musulmani «di come risolvere il conflitto». Secondo Saad Eddine Ibrahim, tra i più vocali attivisti democratici egiziani, più volte incarcerato dal regime e da due anni in esilio, al centro delle parole del presidente americano, domani, ci sarà il decennale scontro israelo-palestinese, la sua risoluzione a livello internazionale. Per questo, spiega, ha voluto incontrare prima l’israeliano Benjamin Netanyahu, il palestinese Abu Mazen, e oggi il saudita Abdullah. E parlare in Egitto, Paese da sempre mediatore nella questione mediorientale. Il discorso, sostiene Ibrahim, non sarà dedicato alla democratizzazione come qualcuno si aspetterebbe. Voci critiche, in Medio Oriente e negli Stati Uniti, vedono nella scelta del Cairo una sorta di endorsement dello status quo faraonico, in rottura con gli anni dell’Amministrazione Bush, che voleva l’Egitto alla testa di una corsa democratica, basando i rapporti diplomatici su aperture del regime.
Qual è stata la sua reazione all’annuncio di un discorso al Cairo?
«Ho scritto sul Washington Post che la prima visita di Obama in un Paese islamico avrebbe dovuto essere in una nazione democratica: Turchia o Indonesia. E il presidente fortunatamente ha parlato ad Ankara, a gennaio. Per il Cairo, sono comunque contento, perché non penso che l’obiettivo principale sia quello di parlare al mondo musulmano, ma d’affrontare la questione israelo-palestinese».
Ne è sicuro?
«Così mi è stato detto da un consigliere del presidente 48 ore prima dell’annuncio, a maggio. Obama ha visto Netanyahu, Abu Mazen, vede Mubarak. L’Amministrazione sembra aver già ottenuto un risultato».
C’è chi si chiede se le aperture di Washington verso il Cairo, senza chiedere in cambio riforme, non siano controproducenti...
«Secondo i suoi consiglieri, Obama è molto impegnato sulla questione della democratizzazione. Però, vorrebbe utilizzare un altro linguaggio, più soft in pubblico e più duro in privato. Vediamo cosa succederà».
Pensa che le pressioni americane in favore della democratizzazione andranno avanti?
«Dovremo lottare per la democrazia. Non devo aspettare che un presidente americano lo faccia al mio posto. La mia battaglia è iniziata 40 anni fa, ha preceduto Obama e andrà avanti dopo di lui».
Nel biennio 2004-2005 in Egitto il movimento pro-democratico era molto attivo. Poi è tornata la repressione. A che punto siamo?
«Siamo in una fase di crescente disobbedienza sociale. Ci sono stati l’anno scorso 2.000 atti di disobbedienza civile, tre anni fa erano soltanto 500. Nel 2005 abbiamo avuto una corta finestra di libertà, ma quando nel gennaio 2006 Hamas ha vinto le elezioni in Palestina, gli Stati Uniti e l’Unione europea hanno ritirato il loro sostegno, spaventati dagli islamisti. A torto. La paura degli islamisti è una patologia».
Ma nel 2005 i Fratelli musulmani andarono bene alle parlamentari...
«Allora votò soltanto il 27 per cento della popolazione egiziana.

Il 73 per cento degli elettori registrati è rimasto a casa perché non gli piaceva la scelta: o Mubarak o i Fratelli musulmani. Se la maggioranza avesse voluto la Fratellanza, sarebbe andata a votare. Ma non lo ha fatto. La maggioranza degli egiziani, infatti, sa già dove stare: né con Mubarak, né con i Fratelli musulmani».

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