Il New Jersey ha votato: era blu, il colore dei democratici, è diventato rosso, il colore dei repubblicani, ed è come se il Pd italiano perdesse in Toscana. Anche la Virginia, martedì ha votato. Appena dodici mesi fa i politologi avevano esaltato la svolta storica di uno Stato da sempre rosso che, trascinato dall’effetto Obama, era diventato definitivamente blu. Ma ieri è tornato repubblicano e con una maggioranza del 18% difficilmente equivocabile.
«Erano solo elezioni locali», ha tentato di relativizzare la Casa Bianca, commentando i risultati. Vero: è un voto locale che non cambia gli equilibri politici a Washington né la doppia maggioranza progressista al Congresso. E non può essere considerato nemmeno un referendum sul presidente, la cui popolarità in Virginia e New Jersey resta alta, sebbene in calo rispetto a qualche mese fa. È stato, semmai, un test sulla capacità di interpretare la voglia di cambiamento degli americani ed è qui che il responso è allarmante per il presidente.
Già, perché martedì hanno vinto proprio i candidati che hanno promesso la rottura. Il caso del New Jersey è il più clamoroso. Il partito democratico ha candidato come governatore Jon Corzine, ex direttore di Goldman Sachs, mentre i repubblicani hanno puntato sull’ex procuratore pubblico Christopher J. Christie, diventato famoso per le sue campagne contro la corruzione e che ha fatto campagna ricorrendo a slogan che puntavano sulle parole «change» e «hope». Ha promesso trasparenza e ha giurato di voler combattere le lobby.
Sono slogan che suonano familiari? Certo, erano quelli di Obama, esattamente un anno fa. Ma nel New Jersey il partito democratico ha candidato un ex banchiere di una banca d’affari ovvero il rappresentante di un mondo odiato dalla stragrande maggioranza degli elettori americani che lo considera come vero e impunito responsabile della recessione. Il presidente negli ultimi giorni lo ha sostenuto vigorosamente, mettendogli a disposizione anche i propri consulenti politici, inutilmente. La sconfitta è stata netta, ben cinque punti percentuali, 49 a 44.
Ancora peggio è andata in Virginia, che da otto anni aveva un governatore progressista e che nel novembre del 2008 aveva preferito un candidato democratico alle presidenziali per la prima volta dal 1964. Ma gli elettori martedì hanno votato a valanga per un altro inflessibile ex procuratore, Robert F. McDonnell, rispetto a un politico usurato come R. Creigh Deeds.
Solo in un seggio per il senato dello Stato di New York, il sostegno di Obama è risultato decisivo e il candidato democratico ha battuto un repubblicano ultraconservatore, sostenuto da Sarah Palin. Troppo poco, per cambiare il senso di una giornata politica, che assume un forte significato simbolico.
Nel 2008 l’America era insoddisfatta, delusa, sfiancata dalla crisi economica. Votò Obama per ottenere un cambiamento vero, che non è arrivato. Oggi il sentimento del Paese è molto simile a quello di un anno fa, ma gli elettori pensano che il partito democratico rappresenti l’establishment e cercano la svolta altrove, anche tra i repubblicani un tempo odiati.
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