Il barbiere nazista, l’aguzzino diventato eroe d’Israele

Strano destino, tragico e grottesco allo stesso tempo, quello di tanti scrittori ebrei tedeschi. Ad esempio, Kafka diviene uno dei massimi autori della letteratura della modernità attraverso la pubblicazione negli Stati Uniti delle sue opere. In Germania pochi si erano accorti della grandezza di questo ignoto impiegato assicurativo. E una sorte analoga è capitata a Edgar Hilsenrath, che prima di divenire uno dei massimi narratori del secondo Novecento tedesco accanto a Grass e Böll, divenne un autore di successo nei paesi di lingua inglese. Hilsenrath, nato a Lipsia nel 1926, è profondamente radicato nella tradizione dell’ebraismo orientale, cui ha dedicato una rievocazione meravigliosa con La fiaba dell’ultimo pensiero (Rizzoli, 1991), lasciò la Germania nel ’38, scampando in Romania, dove venne internato in un ghetto. Nel ’45 riparò in Palestina e nel ’51 negli Usa dove cominciò a scrivere e a conquistarsi il favore del pubblico per poi finalmente essere pubblicato in tedesco. Nel ’75 si trasferisce a Berlino e diventa uno degli autori emblematici dell’odissea tragica dell’ebraismo tedesco, narrata con una irresistibile vis comica che è probabilmente l’unica possibilità che abbiamo per accostarci a una tragedia incommensurabile, di cui non abbiamo ancora una completa consapevolezza storica, come dimostra proprio questo straordinario e strano romanzo Il nazista&il barbiere (Marcos y Marcos, pagg. 416, euro 16), pubblicato nel 1974 da Mondadori, tradotto da Maria Luisa Bocchino dall’edizione inglese, mentre ora siamo confrontati con una nuova stesura, in tedesco, tradotta da Marzia Luppi Cortaldo. Il racconto viene scritto in prima persona. Ma da chi? Da Max Schulz, il protagonista di questa orribile peripezia di un tedesco qualunque del sottoproletariato che vive ai margini della società, passa l’infanzia in uno scantinato con un patrigno che lo sevizia e lo violenta e una madre amorale, a dir poco sconsiderata. La sua unica salvezza è l’amicizia con Itzig Finkelstein, nato nel suo stesso giorno, figlio del rinomato barbiere della cittadina. Max si fa quasi adottare dai suoi vicini ebrei, cresce con Itzig, studia con lui, frequenta la sinagoga, impara le preghiere ebraiche e infine diventa apprendista nel negozio del padre di Itzig. Per un assurdo gioco del destino Itzig è un bel giovane, alto, biondo con gli occhi azzurri, mentre l’ariano Max sembra la caricatura di un ebreo con i suoi capelli scuri e crespi, il suo naso adunco, i suoi occhi da rospo, i suoi piedi piatti. La frequentazione dei Finkelstein non trasforma Max che nel ’33 aderisce al partito nazista dopo aver assistito a un comizio del Führer, che strega ed entusiasma i tedeschi, almeno tutti i tedeschi frustrati dalla storia e dalla società. Sono queste annotazioni di un’ironia e di una sapienza raffinata della psicologia delle masse, che potrebbero essere affiancate come alle tesi della personalità autoritaria tracciata da Adorno. Max è un codardo, un individuo ottuso e squallido, vittima di eventi crudeli, ma a sua volta pronto a trasformarsi lui stesso in carnefice e sterminatore. Militando nelle SS presta servizio in un lager polacco, adibito allo sterminio degli internati, tra cui la famiglia Finkelstein, che invano supplicano la sua pietà. All’arrivo dei russi, il lager viene smantellato e i superuomini delle SS cadono in scontri con i partigiani polacchi. Solo Max si salva con una cassetta di denti d’oro delle sue vittime. Sopravvive agli inseguitori e all’impietoso inverno polacco in una capanna, protetto e insieme seviziato da una vecchia, che sembra una strega uscita da una fiaba dell’orrore. Giunto in Germania, si nasconde alle ricerche dei criminali nazisti con uno stratagemma che supera ogni immaginazione: si appropria dell’identità di Itzig Finkelstein, da vecchi camerati si fa tatuare il numero di Auschwitz e si fa circoncidere. Vende i denti e si arricchisce con la borsa nera e infine emigra in Palestina. E qui combatte eroicamente in un gruppo di terroristi ebrei e poi si arruola nell’esercito israeliano, si copre di gloria e nella guerra dei sei giorni giunge perfino al Canale di Suez, divenendo una sorta di icona del coraggio militare ebreo. Intanto si è sposato, esercita la sua professione di barbiere, aprendo un elegante salone. Il racconto assume inquietanti toni picareschi che rimandano ai grandi precedenti secenteschi e settecenteschi con una vena di amarezza e di follia. Alla fine Max, alias Itzig, confessa a un giudice ebreo tedesco la sua vera identità, ma non viene creduto, viene ritenuto pazzo, una delle tante vittime dei campi di concentramento. A questo astutissimo imbroglione non riesce l’ultima truffa: quella della redenzione con la confessione dell’atroce colpa, ma appunto siffatta immensa atrocità non è credibile. E così torniamo all’inizio della nostra considerazione: troppo grande è stato il dramma dello sterminio per essere accettato. Non c’è punizione adeguata per un crimine che trascende ogni immaginazione, ogni comprensione. Il romanzo di Hilsenrath sceglie l’ilarità per raffigurare una amarezza sconfinata.

La scrittura risulta inadeguata alla realtà e il grottesco e infine una sottile tonalità lirica e ironica tentano l’impossibile, giungendo a una rappresentazione che magnetizza il lettore come pochissimi altri romanzi tedeschi degli ultimi anni.

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