«Per la copertina ci vorrebbe qualcosa di particolare» mi disse l’ingegner Giovanni Volpe sfogliando le bozze di Alla conquista dello Stato, l’antologia della stampa fascista dal 1919 al 1925 da me curata e di cui lui sarebbe stato l’editore. «Sì, bisogna che lei ne parli con Sigfrido Bartolini. Gli scriva, sta a Pistoia». Era la metà degli anni Settanta, avevo venticinque anni, ero un signor nessuno e nella mia testa scrivere a Bartolini, pittore, incisore, polemista, era come scrivere ad Ardengo Soffici. Lo feci con una lettera impacciata, piena di se e di ma, mi rispose con una lettera affettuosa: «Venga quando vuole, vedrà che troveremo qualcosa che le vada bene» concludeva. Un giorno che ero in Emilia, per non so più quale incontro, convegno, riunione, conferenza di cui era costellata la mia esistenza di disoccupato intellettuale, vidi sull’orario ferroviario tascabile che c’era una linea, La Porrettana, credo fosse il nome, che in qualche ora mi avrebbe portato a Pistoia. Mi feci coraggio, telefonai, mi rispose la moglie. Avevo scelto un tragitto interessante, ma un po’ scomodo, commentò ridendo, poi mi spiegò come arrivare da loro una volta in stazione. «Naturalmente si ferma a dormire, è nostro ospite». Il viaggio fu bello nel paesaggio, ma infernale: littorina, sedili di legno, ogni paesino una stazione... Avevo con me uno zaino, indossavo un giaccone militare, quello che si palesò all’ingresso dovette apparire ai padroni di casa un incrocio fra un tupamaro e un vagabondo. Si sorrisero e mi fecero entrare.
La cosa che allora mi colpì, e che poi si è sempre ripetuta a ogni mia visita nel corso degli anni, fu la bellezza. Tutto in casa Bartolini era bello. Erano belli loro, erano belli i figli, era bella la casa che si snodava, intorno a un piccolo giardino, su più piani e su più stanze, semplice e luminosa, piena di quadri e di libri. Era una bellezza non ricercata né leccata, ma pacificatrice. Non c’era nulla di calcolato e di costruito, di artificiale, tutto era naturale, una sorta di sospesa armonia. A cena spiegai un po’ il senso del libro, lo spaccato di una pubblicistica ribalda e truce, strafottente e ingenua, a volte sommaria, spesso penetrante, il ritratto di carta di una generazione e di una ideologia che stava per prendere il potere. Ogni tanto Bartolini faceva un commento, mi chiedeva conto di un nome: Maccari e Longanesi, Suckert non ancora Malaparte e Soffici, Bottai e Marinetti... Quando ripartii il giorno dopo, avevo in una cartella il disegno di copertina: scritto in rosso, come fosse un graffito murale, il titolo andava a incorniciare un libro aperto su delle riviste sotto le quali si intravedeva l’inizio e la fine di un randello... Semplice, perfetto.
Sigfrido Bartolini se n’è andato un anno fa. Il suo ultimo lavoro è stato la realizzazione delle quattordici vetrate moderne per la chiesa dell’immacolata di Pistoia, perché Bartolini era anche questa cosa qui, un incredibile impasto di antico e di moderno, il tenace assertore di un’idea dell’arte come servizio e come comunione con il popolo, la pittura che si perpetua come racconto all’aperto e come tale viene letta negli anni e nei secoli, l’artista che nel suo essere relegato fra le quattro mura di un salotto borghese, sconta in fondo la condanna per aver smarrito il suo senso più profondo. A distanza di otto anni dalla grande personale che la Triennale di Milano gli dedicò, la mostra di Acqui Terme ha ora il merito di «storicizzare» la sua opera e il visitatore troverà, nel catalogo che la accompagna, le «chiavi» che spiegano prestiti e innesti, accostamenti e innovazioni, filiazioni e radicali differenze. Ma a noi, che critici d’arte non siamo, sarà consentito osservare che nulla è più lontano dalla pittura di Bartolini di un approccio intellettuale, ovvero il quadro spiegato e analizzato come fosse un romanzo o un saggio. La pittura ha un suo linguaggio che è fatto di spazi e di volumi, di colori e di proporzioni ed è questo che lui ha sempre cercato di fare al meglio, la manualità intesa come sapienza artigianale, l’affrontare e risolvere i problemi che si presentavano sulla tela.
Nato in un secolo che non era il suo, Bartolini al suo tempo non ha concesso nulla. Non ha mai brigato per avere un premio, non si è mai tirato indietro nel difendere un’idea che riteneva giusta, ha condotto le sue battaglie senza chiedere niente in cambio, come un dovere di cui non bisognasse fare un merito. A metà degli anni Novanta fu critico autorevole e prezioso del Giornale, una scrittura lineare, accompagnata da una vena ironica, tipicamente toscana, con cui stemperare quella che lui chiamava la grande impostura dell’arte: lo strapotere dei critici e dei mercanti, l’eccesso delle mode, l’oscurità voluta di una certa avanguardia fine a sé stessa. Era un solitario fedele alle amicizie, uno che ha attraversato l’avventura astratta, o informale, con tutto il suo corteo di cordate e compiacenze, scandali e quattrini, tenendosi coerente al suo figurativo, casali, marine, nature. Ma era un figurativo anomalo, ovvero senza figure, dove l’essere umano era scomparso e rimanevano le vestigia del suo passato, casali che sembravano fortezze, spiagge deserte, paesaggi con rovine.
Ha avuto una vita piena Sigfrido Bartolini, anche dolorosamente piena, sofferta eppure mai doma, sempre libera.
Ogni tanto mi sorprendo a pensare quale sarebbe il suo commento su quel tale artista famoso, su quel talaltro politico sulla breccia e mi resta la malinconia per uno spirito controcorrente a cui non possiamo più chiedere come comportarci.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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