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Perché il trionfo di Denver e Jokic è un pericolo per la Nba

Il dominio dei Nuggets e della loro superstar "normale" dimostra come il modello della Nba funzioni e come il nuovo basket mostrato da Denver potrà creare parecchi problemi economici alla lega professionistica

Perché il trionfo di Denver e Jokic è un pericolo per la NBA
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Magari non ce ne siamo accorti in molti, occupati com’eravamo con gli ultimi verdetti della stagione del calcio, ma il basket a stelle e strisce ha offerto una grossa novità nel panorama della pallacanestro mondiale. Per la prima volta i Denver Nuggets hanno vinto il titolo nella Nba, trascinati da una superstar molto inconsueta, del tutto disinteressata alla fama, ai social ed a piacere alla gente che piace. Nikola Jokic è un campione sui generis, serio, schivo, determinato come solo uno slavo del sud può essere. Gli importa solo una cosa: vincere e tornare dai suoi cavalli. Eppure è riuscito in un’impresa che non era mai riuscita a nessuno nella storia dell’NBA; dominare la post-season in quanto a punti, rimbalzi ed assist. Michael Jordan e Magic Johnson non ci sono andati nemmeno vicini. Paradossalmente questa grande novità nel basket è un grosso rischio per il modello portato avanti nella NBA da almeno vent’anni. Vediamo quindi cosa vuol dire il netto trionfo di Denver sui malcapitati Miami Heat e come potrà cambiare il mondo della pallacanestro.

Il modello funziona

Denver è una città strana, una delle poche capitali degli stati del Far West ad essere rimasta la città più importante. Oltre ad essere l’unica ad essere in altura, a 1609 metri sul livello del mare, la Mile High City non è certo in grado di battersela coi mercati televisivi più importanti d’America. Se poi lo chiedi alla gente, il tifoso medio ha occhi solo per i Broncos, la franchigia di football che ha avuto grandi campioni ed ha vinto diversi Super Bowl. La pallacanestro? Una specie di corpo estraneo, mai fatto proprio dagli abitanti di Denver. Eppure l’intera città si è entusiasmata per la cavalcata vincente dei ragazzi di coach Malone che ha consegnato ai Nuggets il primo titolo della loro lunga storia. La franchigia del Colorado è la diciottesima a vincere un titolo nella NBA, grazie alle misure messe in campo dall’associazione per evitare che le squadre più famose e ricche si prendessero tutti i talenti migliori.

Giannis Milwaukee Washington

Vi siete mai domandati perché gli sceicchi arabi non si sono mai interessati all’Nba? Perché non potrebbero fare il comodo proprio. L’introduzione dei cosiddetti contratti supermax, eccezione al salary cap che si possono concedere solo a chi hai selezionato al draft, ha permesso alle franchigie “minori” di tenersi le proprie stelle. Senza queste misure, Giannis Antetokoumpo difficilmente sarebbe rimasto a Milwaukee ma avrebbe fatto come Kareem a suo tempo, prendendo la via di Los Angeles. Se a noi europei sembrano tante 18 squadre, le cose sono ancora più varie nell’hockey e nello stesso football. Criticatelo quanto volete, ironizzate pure sulle “americanate”, ma il modello statunitense offre varietà e premia il merito di chi, anche senza venire da una franchigia famosa, lavora meglio degli altri. Non faccio paragoni col calcio nostrano per amor di patria ma, onestamente, da questo paragone non ne usciamo benissimo.

L’altezza conta

Chi è malato di basket ed ha puntato la sveglia nel mezzo della notte per seguire i playoff Nba si sarà reso conto che Denver è una squadra molto diversa da quelle che hanno dominato la lega più difficile al mondo negli ultimi anni. I Nuggets giocano in maniera altruistica, senza cercare per forza le giocate spettacolari. Invece di puntare esclusivamente sul tiro dall’arco, hanno riesumato modelli che sembravano passati di moda diversi anni fa. Penetrazioni, sospensioni, difesa non ossessiva, attenzione ai turnover e alle ripartenze, sembra quasi di veder giocare una squadra degli anni ‘90. La cosa più notevole, però, è come il front office abbia selezionato un gruppo di giocatori ben più alto della media. Miami ha fatto vedere i sorci verdi a tutti nella Eastern Conference, Erik Spoelstra è uno che sa il fatto suo ma anche un tecnico esperto come lui ha dovuto alzare bandiera bianca di fronte agli altissimi Nuggets.

Nikola Jokic Denver Miami 2

Diversi analisti dicono che il resto della Nba dovrà necessariamente trarre le lezioni del caso se vorrà lottare contro Denver nei prossimi anni. Il famoso “small ball”, il basket tutto triple, giocate spettacolari, quello che faceva storcere la bocca ai puristi della palla a spicchi, ha enormi problemi contro una squadra alta ma allo stesso tempo cestisticamente molto intelligente. Possibile che stiamo assistendo ad un nuovo cambio di paradigma, che il modello di basket imposto dal mito Steph Curry e dai suoi Warriors, “piccoletti” che ti sommergevano a forza di triple, sia al tramonto, proprio come la dynasty californiana?

Una superstar scomoda

Alcuni commentatori sportivi americani hanno salutato controvoglia l’approdo nell’elite del basket di un giocatore come Nikola Jokic. Chiunque ha visto anche solo gli highlights delle finali contro gli Heat non può nascondersi dietro un dito: il “Joker” è ingiocabile, un pivot fortissimo nei fondamentali, che tira pure da tre, palleggia bene, ha un’intelligenza cestistica sopraffina, s’inventa assist deliziosi e sembra quasi indifferente alla gloria personale è una bestia mai vista prima nel basket professionistico. Se tecnicamente il serbo è roba da stropicciarsi gli occhi, molti nella Nba lo vedono con non poco fastidio. Mark Jackson, ex giocatore ora passato al ruolo di commentatore, non l’ha selezionato nella terna per l’MVP della regular season, titolo che peraltro si era aggiudicato negli ultimi due anni. Perché mai? Perché nessuno lo ha mai vinto tre volte di fila, nemmeno gente come MJ, Magic o Doctor J. Perché mai dovrebbe riuscirci un lungagnone serbo che a malapena spiccica due parole e sembra del tutto insensibile al circo Barnum che è l'Nba moderna?

Butler Porter Denver Miami

C’è anche chi, più perfido, nota come la percentuale di melanina del buon Nikola sia decisamente deficitaria in una lega dove il razzismo non è affatto scomparso, ha solo cambiato verso. Più che il fastidio nei confronti dei giocatori stranieri (Giannis è popolare ma certo non quanto meriterebbe il suo talento), il problema è che Jokic non ne vuol sapere delle cause che piacciono alla gente che piace, le pagliacciate sui social, la caccia all’endorsement milionario. Per lui il basket è sì una passione ma principalmente un lavoro. Lo fa con grandissima coscienza, impegno costante, lavoro duro ma, una volta finita la stagione, non vuol altro che tornare a casa sua, dai suoi cavalli e dalla sua famiglia. Il fatto che uno dei più grandi talenti della pallacanestro di sempre sia un vero e proprio pugno nell’occhio della deriva woke dell’Nba non lo ha aiutato di sicuro. Per sua fortuna, Nikola se ne frega altamente e continua a vincere. Buon per lui.

Il problema? Gli ascolti

A prima vista, il fatto di avere una nuova franchigia, proveniente da un mercato non del tutto saturo come Los Angeles, Chicago o Boston, dovrebbe essere un’ottima notizia per la Nba. La realtà è ben diversa. Appena si è saputo che sarebbero state Miami e Denver a giocarsi il titolo 2023 la disperazione dei dirigenti della lega era palese. Che problema c’è? Miami ha già vinto, gli Heat non sono certo dei parvenu, perché mai la gente normale, quella che guarda il basket solo nei playoff, non avrebbero dovuto entusiasmarsi per loro? Perché sul parquet non c’erano più i Big Three, perché senza Chris Bosh, LeBron James e Dwyane Wade, Miami è una franchigia normale, ben gestita, seria, con un tecnico esperto come Spoelstra ma nessun giocatore capace di attirare gli sguardi degli spettatori occasionali. Cosa dire poi dei Nuggets, la cui unica superstar, sul cui talento nessuno può discutere, schifa del tutto i social, tanto da non avere nemmeno un profilo Instagram? Denver è una squadra seria, quadrata, con un gruppo compatto come pochi ed un tecnico colorito ma non in grado di fornire clip virali ogni giorno.

LeBron James LA Denver

Per quanto la Nba si sia fatta in quattro per diventare più globale, buona parte degli incassi delle franchigie continuano ad arrivare dai lucrosi contratti televisivi domestici, che fanno impallidire quelli internazionali. La speranza nemmeno troppo nascosta era che in finale arrivassero i Boston Celtics ed i Los Angeles Lakers, una replica dei grandi scontri del passato, di quei duelli rusticani tra Magic Johnson e Larry Bird che hanno fatto la fortuna della Nba. Anche se non è più un giovincello, in quanto a star power LeBron James è ancora imbattibile. Senza superstar vendibili, gli ascolti hanno retto a malapena: le conseguenze potrebbero arrivare la prossima volta che si metteranno all’asta i diritti televisivi. L’Nba vive di marketing, hype, campagne finto-politiche furbette e appoggio sistematico da parte delle superpotenze dell’economia, Nike in testa. Di cosa se ne fanno di uno come Jokic, il cui gioco essenziale, asciutto, scientifico nella sua efficacia, quasi anti-spettacolare sembra richiamare al basket di una volta? L’unico clip virale ad aver fatto il giro di internet è stata la battuta in conferenza stampa del Joker: quando gli hanno chiesto se fosse emozionato all’idea della parata in città, il serbo ha risposto che non gli interessa, visto che deve tornare a casa sua per una corsa di cavalli. Houston, we have a problem...

Una nuova dynasty?

Se la vittoria di Denver ha certo colpito il portafogli di chi ha strapagato i diritti televisivi e, quindi, le varie franchigie Nba, il vero incubo che disturba il sonno di molti nel basket professionistico è che questa squadra strana, operaia e allo stesso tempo talentuosa non abbia voglia di lasciare il palcoscenico. Non sarebbe la prima volta che una franchigia “normale” domina la pallacanestro senza aver bisogno di sceneggiate, stunt pubblicitari o roba del genere. I Celtics di Bill Russell erano più o meno così: poco spettacolari ma con una determinazione feroce nel triturare gli avversari e portarsi a casa anelli su anelli. Per chi ha nostalgia dei tempi della “giustizia sociale in campo”, delle polemiche infinite su questa o quella causa woke, del boicottaggio silenzioso da parte di chi non condivide questi estremismi, la prospettiva di dover parlare anno dopo anno dei Denver Nuggets è una prospettiva peggiore della morte.

Denver Miami titolo game 5

Se, da una parte, quello che si è visto in campo in queste finals è davvero impressionante, con i ragazzi di coach Malone in grado di vincere anche quando avevano il braccino o sbagliavano quantità industriali di tiri, è decisamente presto per dirlo. Un’occhiata al roster di Denver fa notare come tutti i giocatori chiave siano al vertice della carriera: lo stesso Jokic, a 28 anni, ha davanti almeno 5 anni ai massimi livelli, anche se per uno alto e fisicato come lui un infortunio può fare tutta la differenza del mondo. A far sollevare un sopracciglio è il fatto che la rosa sia giovane e che tutti abbiano imparato dal Joker come comportarsi, come rispettare la pallacanestro, come impegnarsi senza esagerare fuori dal parquet. I compagni di Jokic hanno quindi pochi grilli per la testa, non si faranno lusingare dalla fama, dalla tentazione di fare rumore sui social, di far crescere il proprio brand. Quando hai una superstar assoluta a darti l’esempio, la cultura nello spogliatoio è a prova di bomba. L’arena di Denver era entusiasta come poche altre e la città del Colorado non è un mercato marginale.

Braun Denver Golden State

I Nuggets, inoltre, continuano a selezionare giocatori molto intriganti: Christian Braun, 22 anni, dopo aver brillato a Kansas, superpotenza del basket NCAA, ha fatto vedere cose egregie nei playoff. L’ex Jayhawk è uno dei cinque ad essere riuscito a far seguire un titolo Nba a quello vinto al college: gli altri quattro? Gente come Bill Russell e Magic Johnson. La cosa più interessante è che la panchina di Denver ha fatto la differenza, tanto da ridurre progressivamente la dipendenza dal talento straripante di Jokic. Quanto ti puoi permettere il lusso di far tirare il fiato ad un giocatore così dominante, vincere e rivincere non è un caso. Sentiremo parlare a lungo dei Nuggets, con buona pace di chi vorrebbe solo una Nba di giocolieri, clown e social justice warriors. Denver è una squadra seria, che pensa solo a vincere. Per togliergli di mano il titolo non basterà una campagna di marketing.

Il guanto è lanciato.

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