Bazzega, spingendo il dolore più in là

Luciana, vedova di Sergio, una delle vittime del terrorismo ricordate dal libro «Il piombo e il silenzio», parla per la prima volta della sua tragedia

C’è un rumore, sempre quello, che ha perseguitato nei sogni Luciana Bazzega: le chiavi che girano nella toppa. «Quella mattina, mio marito Sergio si alzò presto, alle 5,30. Mi svegliò, mi diede un bacio, uscì. Sentii la serratura della porta che strideva. È l’ultimo ricordo che ho di lui. Sapevo che doveva andare ad arrestare qualcuno, ma era il suo mestiere di poliziotto. Continuai a dormire». Era l’alba del 15 dicembre 1976, la stagione del terrorismo era ormai cominciata e di lì a due ore quella follia sarebbe entrata in quell’appartamento alla periferia di Milano. «Alle sette mi telefonò mio cognato da Pisa: “Ma che sta dicendo la radio? Hanno ucciso un commissario a Milano e ferito un altro agente”. Mi preoccupai».
Luciana Bazzega è seduta nel salotto della sua luminosa casa milanese, in viale Famagosta, a pochi passi da dove viveva allora. È una signora dolce, dall’aspetto giovanile, ma dall’ansia con cui chiede «vuole un caffè?» si capisce che dev’essere stata dura fare i conti con quel disastro. «Sa - dice girando il cucchiaino - è la prima volta che ne parlo. Ho sempre rifiutato le interviste. Troppo dolore. Stavo male, malissimo».
Afferra in cucina un cubo di vetro: su due lati c’è la faccia sorridente del marito, un volto incorniciato dai baffi e dalle basette lunghe che sembra uscito da un film anni Settanta di Carlo Lizzani. Sergio Bazzega. La sua biografia occupa nove righe nel libro Il piombo e il silenzio che Renzo e Domenico Agasso hanno appena dedicato alle vittime del terrorismo. Rosso o nero, non fa differenza. Trecentocinquantasei croci. Trecentocinquantasei drammi che, spesso, sono sprofondati nel cratere dell’oblio. Una Spoon River nazionale, silenziosa e rimossa. Finché, l’anno scorso, la penna di Mario Calabresi, il figlio del commissario Luigi autore di Spingendo la notte più in là, ha disseppellito il dolore delle vedove e degli orfani. Di chi era sopravvissuto, nell’indifferenza della società. Ora dietro quelle lapidi finalmente filtrano, a fatica, i racconti. I ricordi. Gli affetti. Come quelli in vista sulla mensola sopra il frigo di casa Bazzega.
La vedova deposita sul tavolo il cubo. E riafferra il passato: «Chiamai la questura: “Signora”, mi sussurrò qualcuno, “c’è confusione, stia tranquilla”. Ma io tranquilla non ero. Svegliai Giorgio, che aveva solo due anni e mezzo. Telefonai a mia sorella: “Vieni a prendere il bambino, è successo qualcosa a Sergio”. Suonarono. Era Paolo Scarpis, un dirigente della polizia, oggi questore a Parma: “Hanno ferito Sergio, andiamo a Niguarda”. Giorgio gridava: “Che hanno fatto a papà?”. Arrivò mia sorella, uscimmo. Giorgio che pure aveva familiarità con le auto della polizia, quando vide le volanti con il lampeggiante si voltò, come per non vedere il destino che gli stava portando via l’infanzia. In ospedale stavano tentando un disperato intervento chirurgico, scuotevano tutti la testa. Alle 11 era tutto finito».
Luciana Bazzega aveva 29 anni, il marito, friulano di Gemona, 32. «Quella mattina ha distrutto la nostra famiglia: mio figlio ha solo un ricordo vaghissimo di suo padre. I piedi. Lui dice di avere in mente i piedi di Sergio. In realtà, una volta io avevo scattato una foto a Giorgio che giocava ai piedi di Sergio. Lui ha passato tanto tempo tenendo in mano quell’istantanea e dev’essersi convinto di sapere come erano i piedi di Sergio».
L’obiettivo dell’operazione era un appartamento al piano terra di un condominio a Sesto San Giovanni: la polizia doveva arrestare Walter Alasia, un giovane appartenente all’ancora seminesplorata colonna milanese delle Brigate rosse. Andò tutto storto. «Mio marito e il vicequestore Vittorio Padovani furono ricevuti dagli anziani genitori di Alasia. La madre mentì e disse che il figlio non era in casa. Il clima si allentò».
Errore fatale. «I due agenti che indossavano il giubbotto antiproiettile rimasero all’ingresso, Sergio e Padovani entrarono. Si persero secondi preziosi. All’improvviso Walter Alasia sbucò dalla porta di camera sua e sparò a Padovani che era in corridoio, uccidendolo. Sergio che imbracciava il mitra avrebbe potuto aprire il fuoco, ma avrebbe fatto una strage: in pochi metri quadri erano intrappolati il padre e la madre di Alasia e dietro di lui s’avanzava, sbalordito, il fratello. Sergio si gettò sul terrorista, quello si divincolò, gli sparò, poi provò a scappare dalla finestra che si apriva sul giardinetto». Questa volta gli agenti che erano fuori furono più veloci e lo uccisero. «Mio marito fu disteso sul pianerottolo. Ripeteva: “Non spaventate Luciana, è sola col bambino”».
Il 15 dicembre 1976 è una delle date più cupe degli anni di piombo: tre morti. Il maresciallo Sergio Bazzega, il vicequestore Vittorio Padovani, il terrorista Walter Alasia, il cui nome sarà poi utilizzato in decine di rivendicazioni dai brigatisti. «Andai a casa della vedova Padovani: lei voleva conoscermi, ci abbracciammo, aveva quattro figli, l’ultimo di dodici giorni. Siamo diventate amiche. Vede, in qualche modo ho superato quel dolore: l’ho vissuto come un incidente e il fatto che in quella sparatoria sia morto anche l’assassino di mio marito mi ha aiutato. Non ci sono stati processi, interrogatori, scarcerazioni, interviste. Nulla. Un incidente».
Certo, c’è incidente e incidente: «Noi vittime eravamo odiate, al massimo tollerate, quante umiliazioni negli uffici pubblici. E sulla strada verso il lavoro, ogni giorno mi toccava leggere quella scritta su un muro: “Onore al compagno Walter Alasia assassinato dalla polizia”. È rimasta lì per anni, mai nessuno che abbia pensato alla mia pena. Però non mi sono arresa. Ci ho messo tanti anni, ma ce l’ho fatta. Giorgio invece è cresciuto senza padre. Non è stato facile».
E la cronaca è un susseguirsi di emozioni profonde come trappole: «Un giorno siamo a tavola e la tv dà la notizia che hanno scarcerato Curcio. Lui resta di sasso e comincia a chiedere: “Perché l’hanno liberato?”. Un’altra volta è venuto da me: “Mamma, sai dove abita Mario Moretti?”. Io ero tesa; “Tranquilla, io voglio solo dirgli: lei mi ha rovinato la vita”. E poi la ferita più sanguinante, anche per me: ex terroristi con incarichi istituzionali ai tempi del governo Prodi. Io non provo odio, la fede mi ha aiutato molto, ma perdonare chi ha fatto questo a mio figlio, no». Luciana Bazzega alza gli occhi. Sorride di nuovo, quasi stupita di aver raccontato d’un fiato ciò che aveva sempre tenuto dentro. Si capisce che il dolore non l’ha rinserrata dentro quella casa. Ha vissuto sentimenti positivi ed è riuscita a comunicarli al figlio. È stata la sua vittoria su uno sconosciuto che le ha portato via tutto, prima di finire nella bara col fazzoletto rosso al collo.
«Mio marito andò in ospedale stringendo la mano a un volontario della Croce rossa. Io, pensando a quella mano tesa, ho fatto a mia volta la volontaria sulle ambulanze per 18 anni.

Recentemente, durante una cerimonia pubblica, mi si avvicina un tizio: “Signora, sono quello che ha tenuto la mano a suo marito. Ripeteva che aveva male e piano piano la sua stretta si affievoliva”. Lui parlava e io piangevo». Le stesse lacrime di trent’anni prima.

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