Bearzot, un "vecio" solo in cima al mondo

Dal fascino del mondiale argentino al trionfo di Madrid, costruì una nazionale unica lottando contro tutti Spigoloso ma raffinato, solista ma capo di un gruppo speciale. Regalò all’Italia il terzo titolo, poi fu dimenticato

Bearzot, un "vecio" solo in cima al mondo

Enzo Bearzot, il ct del trionfo azzurro in Spagna nel 1982, è morto ieri a Milano all’età di 83 anni, curiosamente lo stesso giorno di un altro commissario tecnico «mundial», Vittorio Pozzo. Nato ad Aiello del Friuli il 26 settembre 1927, la sua carriera di buon mediano, iniziata in B nella Pro Gorizia e proseguita con Inter e Catania, è contrassegnata dalla lunga militanza nel Torino (164 presenze dal 1957 al 1964). Dopo l’addio al calcio, prende in mano le giovanili granata per poi diventare assistente di Rocco e Fabbri. Una breve esperienza al Prato, poi il primo impatto con l’azzurro nel 1969. Resterà alla guida dell’Under 23 fino al 1975, il trampolino di lancio per la Nazionale maggiore, dove condividerà la panchina con Bernardini fino al 1977. Il resto è storia: 4° posto al Mondiale argentino del 1978 e il successo in Spagna. Nel 1986 gli azzurri campioni in carica escono agli ottavi contro la Francia e Bearzot si dimette dopo 104 panchine, 7 in più di Pozzo: record ancora imbattuto. Hai avuto la fortuna di vive­re l’epoca tutta italiana, hai fumato la pipa con Gianni Brera, hai trascorso notti di azzurro tenebra con Giovan­ni Arpino, hai dialogato con Mario Soldati; con loro non parlavi di densità e riparten­ze ma di esistenza e di arte, di tabacco e della tua terra così aspra e così dolce assie­me, il Friuli. Hai amato il jazz, che è un’isola della mu­sica per riflettere e rendersi eleganti, sei tornato «frut» (bambino) goloso con la tor­ta meneghina, ti avevamo ri­­battezzato, per questo, la vol­pe del dessert; hai vissuto il football come si deve, da cal­ciatore e da allenatore, sen­za fanfare, raccomandazio­ni, non hai mai frequentato i palazzi del potere anzi li hai evitati, per questo ti hanno abbandonato nel sottosca­la, sei stato un po’ burbero, mai arrogante, un po’ spigo­loso, mai volgare. Hai messo assieme in due mondiali, quello argentino, bellissi­mo, e quello spagnolo, magi­co, un gruppo di sbarbati con in testa un tuo discepo­lo, Dino Zoff. Hai passato notti insonni con Tardelli e Oriali, compagni di ansia, hai fatto il padre tenero di un friulano mite come Collo­vati, hai provato a fare il pa­dre severo con certi sbarba­telli ignari della responsabi­lità di una maglia azzurra, come Mancini a New York; hai tenuto fuori dal giro quel­li che ritenevi topi e succhia­ruote, di Torino, di Napoli e di Milano, senza fare cogno­mi, chi ha memoria ricorde­rà ma i fans di Bruscolotti e di Beccalossi, di Manfredo­nia e di Furino adesso pian­gono in corteo. Hai vinto un titolo mondia­le battendo Argentina, Brasi­le, Polonia e Germania in un fiato. Non hai voluto tradire i tuoi ragazzi dai quali fosti tradito quattro anni dopo in Messico. Sei stato alla fine di­menticato, direi evitato, messo da parte da questo mondo calcio che non ha ri­spetto della propria storia, dunque di se stesso. Odiavi quello slogan pubblicitario che dice «life is now», la vita per te era domani, era un al­tro giorno, era una voce nuo­va, per ricominciare, per rivi­vere. In altri Paesi saresti sta­to sempre omaggiato, inter­vistato, celebrato, invitato, non per il compleanno o l’onorificenza, ma per i meri­ti tecnici e quelli umani. Hanno, abbiamo preferito ri­metterti nell’argenteria di fa­miglia senza nemmeno luci­dare il pezzo migliore. Ogni tanto un’intervista, ogni tan­to un pensiero, tanto per ac­contentare la nostra coscien­za, come si fa con i nonni a tavola, intanto pensando ad altro. Adesso eccoci qui a mettere assieme pensieri e parole cercando tra fogli stracciati, frugando in una memoria scomoda. È stata, la tua, una fetta bel­la della nostra vita di giorna­­listi, quella, ripensando a certe battaglie, a certi scon­tri di parole e di pensieri, era­no giorni veri, forse malan­drini ma non vigliacchi. Ri­cordo Gigi Peronace con i suoi occhi come olive cala­bresi, ti stava di fianco e cer­cava di allentare certe tensio­ni inutili. Avvitato su te stes­so, come un ulivo secolare, lo mettevi all’ombra e, do­po, domato l’incendio, tor­navi a sorridere. Ricordo il nobile De Gaudio, detto tuto­re, roba da ridere per te che non avevi certo bisogno di badanti e di colf, in panchi­na e fuori, eppure tra un par­tenopeo e un friulano, di­stanti non solo sull’atlante, l’accordo e la sintonia alla fi­ne si raggiunsero. Hai passa­to Sordillo e Matarrese, hai praticato Carraro, roba pe­sante di diversa cifra esisten­ziale e dirigenziale. Sono ap­parsi poi molti sodali tuoi, nuovi docenti del kamasu­tra tattico, profeti che cono­scono a richiesta, come un juke box, tutte le posizioni tranne la prima, la sapienza del calcio. Hai resistito a tutti e a tut­to, poi, a un certo punto, la vita cattiva ha preso in mano il gioco in mezzo al campo. Luisa, la moglie tua dolcissi­ma, ha accarezzato i giorni più difficili, come Glauco e Cinzia, i figli; rari gli amici, Gigi Garanzini fra tutti, per affetto vero e rispetto anti­co. L’albero d’ulivo si è avvita­to ancora di più sul tronco, mentre i rami non avevano più il colore del tempo. La cultura del maso, la tua, del Friuli vero, è tornata a farsi sentire, eri fogolar assieme e neve ghiacciata, uomo sul­l’isola e calore della fami­glia. Eppure quando ci sia­mo incontrati, per un com­pleanno dei tanti, eri uguale a Madrid e a Vigo, a Barcello­na, mentre parlavi risentivo l’urlo del Sarria, la pelle era di nuovo arsa dalla canicola del Camp Nou, rivedevo le luci del Bernabeu. Il tuo rac­conto era forte, emozionan­te, il vento di Milano si portò via il fumo del tuo sigarino appena acceso e, insieme, i ricordi. Hai vissuto, vecio. Hai gio­cato a pallone, con il Toro, che è una cosa bellissima. Hai guidato una squadra az­zurra che ha fatto la storia e non la cronaca. Dicono che il calcio, oggi, sia spettacolo. Balle da venditori di pento­le. Prevedo cortei di celebran­ti, parole ciclostilate di circo­stanza, facce di bronzo per farsi riconoscere nel mo­mento delle onoranze fune­bri.

Le stesse figure che in questi anni hanno osservato la dimenticanza. Il sipario del tuo teatro si è chiuso, len­tamente, nel silenzio. Dal fondo sta partendo un ap­plauso. E un altro. E un altro ancora. Sulla tavola restano una fetta di torta meneghi­na. E una pipa. Spenta.  

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