Investito da un'auto si allena con una gamba e diventa n. 1 del tennis

Nel marzo del 1989 l'austriaco Thomas Muster è all'apice della sua carriera: un ubriaco al volante lo centra in pieno a Miami, sgretolandogli un ginocchio. Ma lui decide di non arrendersi

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Chiamatelo come volete, ma quel che è certo è che Thomas Muster non è un predestinato. Nessun albero genealogico che gli passi i geni giusti, quelli che gli consentirebbero di flutturare con grazia sui campi da tennis di mezzo mondo. No: è sprovvisto delle carezze che Edberg distribuisce alla pallina, della visione illuminata di McEnroe, delle geometrie tenaci di Lendl. Nasce in Stiria, Austria profonda, dove l’inverno pare non finire mai. Cresce nel silenzio, lontano dai riflettori. Non è un enfant prodige, ma un operaio della racchetta.

Ogni colpo lo costruisce in palestra, con la logica brutale del lavoro. Il suo tennis è un mestiere faticoso. Mentre intorno deflagra il tempo delle icone globali, Muster resta tutto corpo e volontà. Si allena come un pugile, gioca come un maratoneta. Lento a decollare, ma inesorabile nella crescita. Macina chilometri sul rosso, si nutre di polvere e ostinazione. È un mastino: chi gioca contro di lui deve farsi il segno della croce, perché anche se sei più forte non allenta la presa. Per questo gli affibbiano un nomignolo simpatico: l'animale di Leibnitz. Solo che quando il salto sembra vicino, quando inizia a guadagnare semifinale dopo semifinale, un destino infame gli sbatte letteralmente contro.

È il marzo del 1989 e siamo ai Miami Open: Muster si trova in semifinale sull'isolotto di Key Byscaine, davanti ad ammassi di tifosi festanti. Ha appena battuto Yannick Noah e adesso deve sfidare Ivan Lendl, allora numero uno al mondo. Ha 21 anni, è nel momento migliore della sua giovane carriera. Ma la notte prima della semifinale, mentre sta per salire in macchina, la storia svolta in negativo. Viene investito da un’auto. Alla guida c’è un ubriaco. L’impatto è devastante. Il ginocchio sinistro si sgretola. I medici parlano subito chiaro: stagione finita, forse carriera finita.

In ospedale, circondato da garze e referti, Muster ascolta e tace. Non piange, non grida. Si chiude. Si isola. Non accetta l’idea di deporre le armi. Pochi giorni dopo, mentre è ancora in ospedale, fa costruire una piattaforma di legno. Una pedana larga abbastanza per farci montare una sedia, tenere la gamba ingessata sollevata, e colpire. Per ore. Ogni giorno. Si allena da seduto, palleggia da fermo. Una modalità mai vista, scomoda e a tratti delirante, ma a Muster tanto basta. Mentre gli altri fanno fisioterapia con prudenza, lui trasforma il recupero in una battaglia personale. Non si limita a guarire. Si impone di non smettere. Lavora così per mesi. Palleggia contro un muro, o con insieme ad un coach che regge il ritmo. Colpisce senza muoversi, ma dentro di sé corre, scalcia, combatte.

I media, gli addetti ai lavori e i colleghi la bollano come una follia. Per lui è pura normalità. Quando torna in campo, meno di un anno dopo, lo fa da sopravvissuto. Ma non cerca compassione. Vuole dominare, vincere. E ci riesce. Inizia a macinare titoli, soprattutto sulla terra battuta. Conquista 44 finali, trionfa in Coppa Davis e nel 1995 alza al cielo il Roland Garros e diventa numero uno del mondo. Ma quei trofei sono solo la parte visibile.

La vera vetta Muster l’ha scalata nel silenzio di quegli allenamenti, sulla pedana di legno, con la gamba immobile e il braccio che non smetteva mai di colpire. È lì che nasce il suo mito. Lì che è resterà per sempre racchiuso il suo trofeo più importante.

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