di Giorgio Gandola*
«Dove volete che arrivi Cantù, gioca in un garage». La caustica previsione del patron bolognese Claudio Sabatini si è rivelata imprecisa: mentre la sua Virtus è già in vacanza, nel vecchio garage Pianella la Bennet Cantù gioca la finale scudetto. E la collina di Cucciago - terra di Brianza, di mobilieri, di partite Iva, di cumenda delusi e di eterni sognatori torna al centro della geografia del basket. Trentanni dopo la foto in bianco e nero con Pierluigi Marzorati che difendeva su Mike DAntoni, la città dei 35.000 abitanti e dei mille canestri è di nuovo in area piccola ad aspettare lultimo rimbalzo del destino.
Potremmo dire che la storia si ripresenta alla porta, che da queste parti gli orologi si sono fermati e segnano lora esatta due volte al giorno. Ma sarebbe un artificio retorico, perché la lezione di Cantù e dellItalia di provincia allItalia metropolitana è semplice e moderna al tempo stesso: non si vince solo con i budget, ma soprattutto con la programmazione. Non si fa la differenza con il jet set a bordocampo, ma con il valore degli uomini dentro lo spogliatoio. Idee eterne nella città dei falegnami che diventano designer e che sono capaci, dentro il garage del Pianella, di parcheggiare delle Ferrari.
Cantù pazza di gioia ha perpetrato la grande beffa: per eliminare Milano dalla corsa scudetto sè affidata a quattro milanesi. I fratelli Anna e Paolo Cremascoli, giovani proprietari in perfetta sintonia con lo spirito bohemien del luogo; Bruno Arrigoni, inossidabile guru del mercato che adora ripetere: «Io qui sono come un comò, un divano, insomma sono la mobilia». E Andrea Trinchieri, il più rampante e invidiato dei coach, quarantenne cresciuto a pane e basket fra le govanili dellOlimpia e i playground di Manhattan. Lantitesi del monumento equestre Dan Peterson, brillante nella gestione dei giocatori e della comunicazione. Capace di cambiare quattro difese in due azioni e di evocare Roberto Benigni dopo il trionfo del Forum: «Quando vinse lOscar, lui disse che il regalo più grande che gli avevano fatto i suoi genitori era la povertà, perché gli consentì di assaporare tutte le cose straordinarie della vita. Per me questi due anni, con il giusto parametro dato alla parola povertà, perché la nostra è dignitosissima e lo è solo in rapporto alla ricchezza degli altri, sono stati straordinari».
Quindici milioni di budget aveva Milano, un terzo scarso aveva Cantù. Ma la testa e il cuore, nella socialdemocrazia del parquet, valgono più dei bonifici bancari. Così, 30 anni dopo, siamo alle solite: qualcuno col cerino acceso e Cantù che non ha nessuna voglia di farsi bruciare.
*direttore della «Provincia di Como»