Ben Ali, l’ex amico che nessuno vuole

La Francia di Sarkozy gli chiude le porte. L’Italia fa ripartire subito da Cagliari l’aereo che lo trasportava per il timore di reazioni della comunità tunisina. Così il dittatore in fuga trova riparo solo in Arabia Saudita

Ben Ali, l’ex amico che nessuno vuole

Molti avranno avuto un moto di sorpresa quando, sabato sera a tarda ora, è apparsa sui teleschermi la notizia che la Francia aveva rifiutato di accettare sul suo territorio il presidente tunisino Ben Ali, in fuga davanti alla "rivolta del pane" (e che anche l'Italia si era affrettata a invitare a riprendere subito il volo un aereo sbarcato all'aeroporto di Cagliari su cui si sospettava potesse esserci l'esule). Ma come? Un Paese che, a suo tempo, aveva dato asilo senza problemi al dittatore haitiano Baby Doc e a vari pittoreschi despoti africani, un Paese che ha fatto dell'accoglienza un dogma al punto di essere diventato il rifugio di decine di terroristi italiani, sbatteva la porta in faccia al capo di Stato di una nazione amica, con cui lo stesso Sarkozy si è incontrato più volte, con cui la Francia ha fatto innumerevoli affari e che l'Occidente intero considerava un baluardo contro l'avanzata del fondamentalismo islamico? Con che coerenza un governo che fino a poche ore prima invitava i dimostranti alla calma, puntava abbastanza chiaramente sul mantenimento del regime e non manifestava alcuna simpatia per la piazza in tumulto scaricava senza complimenti l'alleato di vent'anni, costringendolo a cambiare rotta e a dirigersi verso la più accogliente Arabia Saudita?
«È la Realpolitik, bellezza», risponderebbe probabilmente, se interpellato sull'argomento, il solito anonimo funzionario dell'Eliseo. La Francia - e verosimilmente anche l'Italia, che per sua fortuna non è stata coinvolta direttamente nella vicenda - hanno capito al volo che con la precipitosa fuga di Ben Ali e della sua numerosa e rapace famiglia stava finendo un'epoca, che la Tunisia, qualunque cosa accada nelle prossime settimane e nei prossimi mesi, non sarà mai più la stessa e che, visti gli stretti rapporti che la legano all'Europa, conveniva posizionarsi subito nella maniera giusta. Il ragionamento deve essere stato, più o meno, questo. Ben Ali ha sicuramente accumulato dei meriti nei nostri confronti, per avere mantenuto saldamente il suo Paese nel campo occidentale, per non avere lasciato via libera all'immigrazione clandestina e per avere combattuto Al Qaida nel Maghreb. Ma era anche un despota che violava sistematicamente i diritti umani e (come si legge in uno dei dispacci dell'ambasciatore americano rivelati da Wikileaks) un ladrone che aveva permesso al suo clan di accumulare immense fortune mentre la popolazione faticava a sbarcare il lunario. Fino a quando era in controllo, conveniva sostenerlo. Tuttavia, nel momento in cui era solo un dittatore in fuga, inseguito dalle maledizioni del suo popolo, offrirgli asilo politico sarebbe stato troppo pericoloso.
Significava alienarsi le numerose e abbastanza influenti comunità tunisine in Europa, tutte entusiaste della sua caduta; significava partire con il piede sbagliato nei rapporti con quello che, dopo le elezioni in programma tra due mesi, sarà il nuovo governo tunisino, presumibilmente composto in buona parte da avversari di Ben Ali; significava mettere in pericolo rapporti economici e commerciali importanti, che già non sarà semplice salvaguardare; da ultimo, significava anche crearsi seri problemi di sicurezza, perché un Ben Ali in esilio potrebbe diventare il bersaglio ideale per attentati terroristici e richiederebbe un dispendioso apparato di protezione.
Così, al settantaquattrenne ex-uomo forte di Tunisi, che forse sognava di godersi la fortuna accumulata tra Parigi e St.Tropez, non rimarrà che passare i suoi ultimi anni nella monotonia di Gedda, col divieto di svolgere attività politica e di parlare con i media. Nel dargli ospitalità, re Abdullah corre a sua volta dei rischi, perché molti pronosticano che l'ondata insurrezionale partita da Tunisi potrebbe investire molto presto altri Paesi arabi in cui, per dirla con un commentatore della Tv libanese, «presidenti e sovrani sono arrugginiti sui loro troni». Inoltre, tra il sovrano saudita, di stretta osservanza wahabita, e il laicissimo Ben Ali non ci dovrebbe essere, sulla carta, molta sintonia.

Ma forse l'Arabia, che a suo tempo si era presa perfino Idi Amin, ha voluto onorare la tradizione islamica dell'ospitalità, oppure Abdullah ha voluto dimostrare alla piazza araba di essere ancora abbastanza saldo per permettersi questa sfida.

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