Ben, l’uomo zero tassi che ha battuto la crisi

A un certo punto, ha deciso di gettare alle ortiche il laissez faire tanto caro ad Alan Greenspan. Liberandosi della presenza troppo ingombrante del Maestro e iniziando a prendere di petto una crisi altrimenti ingestibile, Ben Bernanke ha posto il primo mattone per la riconferma alla guida della Federal Reserve.
Giudicare il suo operato è infatti possibile solo dividendone in due parti il mandato. C’è un primo Bernanke, ovvero il professore di Princeton che nel febbraio 2006 accetta per uno stipendio di neppure 200mila dollari di sostituire un’icona come Greenspan. È il primo accademico puro, dai tempi di Arthur Burns (1970-1978), a fregiarsi dei galloni di banchiere capo. Ha solo 52 anni, una laurea cum laude ad Harvard, è repubblicano, è considerato uno dei massimi esperti di recessione ed è un grande seguace delle teorie di Milton Friedman. Ma Ben ha anche un occhio inquieto sull’inflazione. Sarà per questo che nell’autunno del 2006, dopo aver minimizzato i rischi di uno scoppio della bolla immobiliare, asseconda lo sgonfiarsi dei prezzi delle case. È un primo errore di sottovalutazione. Né i successivi segnali di malessere di American Home Mortgage e di Bear Stearns lo rendono più vigile. L’economia viaggia del resto a ritmi di crescita del 5%, e l’unica insidia sembrano gli alti prezzi del petrolio e qualche gaffe sul versante della comunicazione, come quella rimediata per aver rivelato a una giornalista che la fase delle strette sui tassi non era ancora esaurita.
Bernanke non cambia idea neppure nell’estate 2007, quando il virus dei mutui sub prime ha già cominciato a diffondersi. Ridimensiona il fenomeno, stimando perdite tra i 50 e i 100 miliardi. È un altro sbaglio, macroscopico rispetto a quello precedente. Sarà l’ultimo, perché con l’autunno arriva la svolta. A spaventare l’ex professore sono forse i 12mila tagli annunciati da Chrysler, oppure i consumi privati vacillanti, le prime insolvenze, il sistema finanziario sempre più sotto pressione. Non è più tempo per l’autoregolazione dei mercati, né di affermare che «gli investitori non vanno protetti». Così taglia i tassi, fermi al 5,25%.
È la prima di una lunga serie di riduzioni che porteranno a zero il costo del denaro. Bernanke riscopre la lezione di Friedman: se l’economia è paralizzata, vanno anche usati gli elicotteri per sommergerla di denaro. Agli stimoli dell’azione classica di politica monetaria, affianca quindi il ricorso massiccio alle iniezioni di liquidità, fino alla più recente decisione di acquistare titoli del Tesoro. Un interventismo a tutto campo, non da tutti gradito: qualcuno definisce Bernanke «l’emblema del socialismo finanziario a stelle e strisce». Lui va avanti, e nell’estate 2008, insieme con il segretario al Tesoro Henry Paulson, orchestra il salvataggio di Bear Stearns, ceduta a JP Morgan. Lehman Brothers viene invece lasciata fallire. Mentre si scatena il panico sui mercati e si teme il peggio, Bernanke è al lavoro con Paulson per evitare il default del colosso assicurativo Aig. «Too big to fail», troppo grande per fallire, spiegherà motivando implicitamente il mancato soccorso a Lehman, di cui farà, tempo dopo, pubblica ammenda.

È un Bernanke anche duro, pronto a minacciare di licenziamento il ceo di Bank of America, Kenneth Lewis, riluttante a procedere come da programma alla fusione tra Bofa e Merrill Lynch. Insomma, un Bernanke diverso rispetto agli esordi. Stimato dalla Casa Bianca, quanto dagli economisti e dai mercati. Perché cambiando strada facendo, ha saputo vincere la partita con la crisi.

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