Roma - Torna alla mente la magistrale vignetta di Vauro, quella che campeggiava sulla prima pagina del Manifesto all’alba dell’11 aprile del 2006, dopo il più lungo testa a testa elettorale che l’Italia ricordi. Sotto la scritta Notte da incubo, un ormai esausto signore in pigiama esclama incredulo: «Non è finita!». Il Cavaliere, in piedi sulla spalliera del letto, mani sui fianchi e ghigno sfavillante, concorda piuttosto soddisfatto: «Non è finita!». Passati ventuno mesi o poco più, quello che per Vauro era un timore è ormai diventata una certezza. Al di là di quelle che erano le convinzioni di molti editorialisti e politologi, che all’indomani dell’ingresso di Romano Prodi a Palazzo Chigi già dissertavano sul «berlusconismo postumo». Invece, a prescindere da come si concluderà la partita in corso al Quirinale, è chiaro a tutti - maggioranza e opposizione - che Berlusconi è tornato a giocare a centrocampo. Al punto che venerdì scorso, durante il primo giorno di consultazioni, pure Giorgio Napolitano ha ammesso nei colloqui riservati che «senza Forza Italia un altro governo non si fa».
Le due cadute
Così, dopo il tonfo del 1994 e la sconfitta del 2006 - che pure i suoi alleati avevano immaginato sarebbe stata decisiva - Berlusconi si ritrova di nuovo in pista. Con all’attivo quella che considera una sua personale vittoria. Erano passate appena due settimane dalle elezioni, infatti, quando il Cavaliere decise di presentarsi a Trieste per sostenere al ballottaggio il candidato sindaco del centrodestra. Insomma, nonostante la seconda sconfitta contro il suo avversario di sempre, il leader di Forza Italia metteva nero su bianco l’intenzione di non indietreggiare di un passo. E dal capoluogo friulano lanciava quello che nei ventuno mesi successivi sarebbe diventato un vero e proprio mantra: «Prodi sarà una parentesi». E così è stato. Per la sua ostinazione, ma pure per quella di Prodi che è voluto arrivare fino in fondo con il voto al Senato. Una «caparbietà» che non a caso il Cavaliere rispetta, perché in questo i due si assomigliano. «Anche se quando è toccato a me nel ’94 - ricordava venerdì sera sorseggiando un aperitivo al Grand hotel Vesuvio di Napoli - ho scelto una strada diversa e ho preferito salire al Quirinale. Ma questo non significa che non rispetti la sua scelta».
La rivincita
Una vittoria, la caduta di Prodi, pure nei confronti di chi - alleati compresi - ironizzava sull’annunciata implosione del governo, a febbraio sperata sull’Afghanistan e a dicembre immaginata sulla Finanziaria. «Ma quale spallata...», prendeva le distanze Pier Ferdinando Casini ancora a settembre. Mentre il 17 novembre Gianfranco Fini scriveva al Corriere della Sera e invitava Berlusconi a farla finita con «gli annunci roboanti» sull’imminente caduta del governo. Per il leader di An bisognava «cambiare strategia».
L’amarcord
Così, archiviata la partita con Prodi, il Cavaliere guarda avanti e sogna di «fare come Tony Blair» e trovare «un Gordon Brown italiano». Berlusconi, però, si volta anche indietro e ricorda quello che fu il suo primo appuntamento con la politica che conta. Lo fa a Napoli, perché è lì che a luglio del ’94 si riunì il G7, allargato per la prima volta alla Russia in qualità di «Stato osservatore». «Ho visto la foto dei leader che vi presero parte - raccontava venerdì - e sapete qual è l’unico tra quei capi di Stato e di governo che è ancora qui? Sono io, richiesto dalla gente». Berlusconi ricorda François Mitterrand e Boris Eltsin «che non ci sono più», ma pure l’allora primo ministro giapponese Tomiichi Murayama e Bill Clinton «che non fanno più politica attiva». «Se ci penso - aggiunge - mi chiedo a 71 anni chi me lo fa fare...».
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