Che Pier Luigi Bersani speri con tutte le sue forze in una sconfitta di Berlusconi a Milano e a Napoli è più che normale: sarebbe preoccupante il contrario. Ma c’è una differenza fra l’augurarsi l’insuccesso dell’avversario e il festeggiare la propria vittoria: e sta in questa differenza, oggi sottile ma domani chissà, il problema principale del Pd.
Visti da Largo del Nazareno, i due candidati che contendono al centrodestra la guida di Milano e di Napoli sono profondamente diversi tra loro, per biografia politica e per profilo culturale, e diverse sono le coalizioni che li sostengono (a Napoli il candidato del Pd non è neppure arrivato al ballottaggio), ma in comune hanno il fatto di non essere iscritti al Partito democratico. Se a Milano vince Giuliano Pisapia, infatti, vince un candidato di Sinistra e libertà; se a Napoli vince De Magistris, vince un uomo dell’Italia dei valori.
La verità è che la crisi del centrodestra non sta producendo un’alternativa moderata di centrosinistra, ma una sua radicalizzazione, che uscirebbe premiata dal possibile successo di Milano e Napoli e che segnerebbe di conseguenza l’evoluzione futura del quadro politico. In altre parole, il «vincitore» Bersani sarebbe a sua volta prigioniero dei veri vincitori, simbolici e politici, di queste elezioni: il giustizialista Di Pietro e il gruppettaro Vendola. I quali, con tutto il rispetto, non sembrano i più adatti ad incarnare la vocazione riformista e moderata di cui il Pd vorrebbe farsi interprete.
È assai improbabile che un’alleanza di questo tipo - un sinistra-centro a trazione vendolian-dipietrista - sia in grado di dar vita ad una coalizione di governo «credibile, affidabile, praticabile» (secondo la felice espressione del presidente Napolitano, che a sua volta citava un autentico riformista come Giolitti). Per questo Massimo D’Alema moltiplica i segnali a Casini e alla Lega per un governo «tecnico» che butti fuori il Cavaliere e scriva una nuova legge elettorale proporzionale: perché sa bene che la nuova «gioiosa macchina da guerra» potrà pure (forse) vincere a Milano e a Napoli, ma non reggerebbe, come quella che l’ha preceduta nel ’94, alla sfida di Palazzo Chigi.
Il banchetto sulle spoglie di Berlusconi, che in molti pregustano con quel di più di rabbia frutto delle troppe sconfitte, e che del resto la cautela e l’esperienza inviterebbero a non dare affatto per scontato, non vedrà insomma Bersani a capotavola. Anzi: il leader del Pd, che in questi mesi ha giocato soprattutto di sponda, rinunciando a costruire un’identità riformista definita e riconoscibile per barcamenarsi fra un’apertura a Vendola e un invito a Casini, rischia di ritrovarsi come il proverbiale vaso di coccio stretto fra le tenaglie sempre più insistenti dell’antiberlusconismo. Disse una volta Bersani, poco dopo essere stato eletto segretario, che «il vero antiberlusconiano è quello che manda a casa Berlusconi»: era, oltreché una verità, un modo per prendere le distanze da un’idea fanatica e oltranzista del fare opposizione.
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