«La biblioteca europea è necessaria, anche se costa»

di Salvatore Carrubba
Caro Direttore, consentimi di aggiungere qualche considerazione alle osservazioni di Vittorio Sgarbi sul progetto della Biblioteca europea di informazione e cultura di Milano.
Questo progetto è frutto di un’iniziativa della società civile milanese che negli anni scorsi fu fatto proprio (su grande impulso del Comune di Milano) da Stato, Regione Lombardia, Comune e Provincia che sottoscrissero un’intesa (tecnicamente: un «accordo di programma») per la sua realizzazione. Si tratta dunque di un esempio raro, e virtuoso, di quella collaborazione tra pubblico (in tutte le sue articolazioni) e privato che si invoca a ogni pie’ sospinto come strategia irrinunciabile per la gestione della cultura.
Nel merito, Vittorio Sgarbi considera inutile l’idea e brutto il progetto. Quanto all’idea, continuo a considerare importante che Milano diventi sede di una grande biblioteca a scaffali aperti, di stampo innovativo: mi pare romantica l’idea che, per diffondere cultura, basti regalare libri ai ragazzi. Credo piuttosto, sull’esempio degli altri Paesi e di quanto invocano tutti gli esperti e gli operatori del settore, che la lettura possa essere diffusa anche attraverso il miglioramento continuo dei servizi bibliotecari che sempre più devono orientarsi a diventare centri attivi di cultura: lo ha ricordato il congresso internazionali dei bibliotecari svoltosi in questi giorni a Milano. Né credo che lo spezzettamento di una grande biblioteca in tante sedi, come pure propone Sgarbi, possa rappresentare una soluzione funzionale. Il costo della Beic è alto, si sa, ma rappresenta l’equivalente di qualche chilometro di autostrade: un prezzo che, forse, l’Italia potrebbe permettersi, anche per dimostrare di voler investire ancora nella cultura (se mai, il problema che resta da approfondire è quello dei costi di gestione della struttura).
Quanto al giudizio estetico, questo non spettava a me come assessore alla Cultura all’epoca della conclusione del concorso internazionale che fu bandito per scegliere il progetto. È la stessa strada che si era seguita in importanti occasioni precedenti (i concorsi per l’Ansaldo e per il museo del Novecento, vinti da David Chipperfield e Italo Rota): in questi casi, il compito di giudicare viene affidato a una giuria di esperti (tra i quali, anche nel caso della Beic, un rappresentante ai massimi livelli di competenza professionale del ministero per i Beni e le Attività Culturali). Mi pare la strada più trasparente (non a caso invocata in tanti altri casi) e che nei tre casi milanesi che ho citato non ha dato adito ad alcuna contestazione ad alcun ricorso. Il progetto vincente potrà piacere o meno (e sarà quasi impossibile che piaccia a tutti), ma il risultato non può essere condizionato dal giudizio estetico dell’assessore (o del sindaco) pro tempore, se si vuole garantire la trasparenza e l’efficacia della procedura: i compiti di tutela paesaggistica e ambientale sono affidati dalla Costituzione non ai Comuni, ma allo Stato, che li esercita attraverso il ministero e le sovrintendenze.
L’assessore alla Cultura non è l’esteta della città: pensiamo, se fosse vero il contrario, a cosa succederebbe nelle tante città che non hanno la fortuna di poter contare sulle straordinarie competenze critiche di Vittorio Sgarbi.

E figuriamoci cosa diventerebbe l’Italia (a parte i rischi che già corre, denunciati nelle sacrosante, e da me condivise, battaglie dello stesso Sgarbi) se fossero gli assessori (e, dunque, la politica) ad arrogarsi l’ultima parola sulla qualità estetica degli interventi nelle proprie città.

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