L’estrema violenza esercitata dai soldati e dagli agenti delle forze antisommossa birmani sembra aver sortito, almeno temporaneamente, l’effetto voluto dai loro mandanti. Stroncate le proteste contro il regime guidate dai monaci buddhisti, seminato il terrore tra i cittadini che a decine di migliaia li avevano seguiti, è stato possibile ritirare dalle strade di Rangoon e delle altre principali città della Birmania la maggior parte dei militari che le presidiavano. Anche le barriere di sicurezza che erano state montate per sbarrare la via ai manifestanti sono state rimosse: perfino nelle aree prossime alle grandi pagode di Shwedagon e di Sule, epicentro del terremoto che ha rischiato di far crollare il più che quarantennale edificio della dittatura, non se ne vedono più.
Nessuno crede che questa mossa possa essere interpretata come un cedimento, o perlomeno una concessione, alle pressioni internazionali sulla giunta militare al potere. Piuttosto è il segno della convinzione del regime di non correre più rischi e forse anche del bisogno di sperimentarlo. Certamente la calma sinistra che regnava ieri nelle strade semideserte della ex capitale può dare tranquillità al generale Than Shwe, il capo del governo, ma è fin troppo evidente che la brace arde sotto la cenere e che solo la paura impedisce per ora all’incendio di tornare a divampare.
La durissima repressione degli oppositori, intanto, continua. Un giornale vicino alla giunta militare ha riferito ieri di altre 78 persone «coinvolte nelle proteste» che sono state arrestate, e fissa a circa mille (tra cui 135 monaci buddhisti) il numero totale degli incarcerati in queste settimane. Cifre che gli oppositori giudicano inventate: le loro fonti parlano di circa seimila arresti e di «centinaia» di attivisti uccisi.
Si diffondono anche notizie inquietanti, come quella pubblicata dal britannico Sunday Times: diplomatici e volontari stranieri riportano testimonianze di un viavai di camion diretti verso la zona nord-est di Rangoon con carichi coperti da teloni. Si sarebbe trattato di cadaveri di oppositori destinati alla cremazione in segreto in un forno gestito dall’esercito birmano. Nottetempo, secondo le testimonianze, dai camini di quel forno si levava in continuazione del fumo. In questo modo la giunta militare spera di rendere impossibile un conteggio certo delle vittime della repressione.
E mentre il regime fa circolare la dubbia notizia di aver rinvenuto armi nei monasteri buddhisti, arrivano in Occidente le testimonianze di chi la violenza l’ha subita per davvero.
Un monaco diciottenne ha raccontato alla France Presse di aver trascorso con un migliaio di altri bonzi sei giorni da incubo in un capannone surriscaldato, senza acqua né cibo, con percosse e interrogatori tesi a far loro confessare chi fossero i capi della rivolta.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.