"Bisogna riscoprire l'arte di cesellare parola per parola"

Luca Goldoni parla di metodo: "Piuttosto di buttare lì un termine meglio uno spazio bianco". E sulle redazioni: "I letterati non sono mai amati. Buzzati si beccò del cretinetti"

Luca Goldoni è uno dei giornalisti-scrittori più apprezzati d’Italia. Ha inventato un particolare modo di raccontare le notizie e di scrivere i romanzi - un linguaggio che è il perfetto calco del parlato, che quasi rende le intonazioni della voce sulla carta - che ha fatto scuola. Lo abbiamo intervistato a proposito delle riflessioni di Manlio Cancogni sulla morte del rapporto tra giornalismo e letteratura.

Cancogni parla di un’insofferenza verso quella che una volta era la terza pagina. Si è davvero rotto il rapporto tra giornalismo e letteratura?
«C’è del vero nella riflessione di Cancogni, ma l’insofferenza verso i letterati nei giornali ha radici antiche. Si ricorda del caso Buzzati? Al Corriere qualcuno si permise di chiamarlo “cretinetti” perché stava scrivendo Il deserto dei tartari... Oggi forse la situazione è peggiorata per il fatto che si rifiuta il bello. Nei giornali ci sono tanti tipi di rifiuto di conformismo e questo ha degli effetti. Se devo essere sincero, però, ciò che mi preoccupa davvero è che in Italia ormai vogliono scrivere tutti e non legge nessuno. Io ho ricevuto, tra le altre, la lettera di un ragazzino quindicenne: “Caro Goldoni ho scritto un bestseller... Mi aiuta a piazzarlo?”.

E quindi?
«E quindi visto che scrivono tutti, il bomber, la velina, l’avvocato... accidenti, non sarebbe male se si lasciasse lo spazio per scrivere anche al giornalista... Al racconto fatto sui giornali ad esempio, come dice Cancogni».

Se invece parliamo di qualità della scrittura sui giornali, che mi dice?
«Mediamente credo che oggi i giornali siano scritti peggio di come erano scritti sino ad alcuni anni fa».

Mancano i «giornalisti-letterati»?
«Anche... Le faccio un esempio. Il mio “Oscar” personale al giornalista scrittore va a Egisto Corradi. Era perfetto nell’inchiesta, nella ricerca delle fonti... Ma era anche grandioso nella scrittura. In La ritirata di Russia la sua prosa ha una potenza incredibile. Era uno di quei casi in cui il limite tra scrittore e giornalista era davvero indefinibile. Bettiza è prima giornalista o prima scrittore? E Moravia? E Brera?».

Una questione di uso della lingua?
«Anche. Il mio professore di liceo diceva: “ricordatevi che a volte avere poche idee ma possedere il linguaggio per esprimerle è molto meglio che averne molte e non essere in grado di raccontarle”. Certo anche oggi ci sono delle eccezioni positive. Natalia Aspesi è molto brava».

Lei ha sperimentato molto sul linguaggio. È stato tra i primi a portare il parlato negli articoli di giornale e nei romanzi...
«Ho lavorato molto in questo senso. Su questo e sul costume».
Dietro a questa semplicità apparente c’era una ricerca letteraria?
«Un buon articolo non parla di cose né troppo note, né troppo ignote. È una picchiata verso un luogo comune con un’improvvisa virata all’ultimo momento. Soprattutto ho sempre scritto con vicino il dizionario dei sinonimi. Mi piace trovare la parola giusta. Quando si scriveva a macchina e proprio non mi veniva, lasciavo uno spazio bianco... La inserivo dopo con calma. Tant’è che mio figlio in un tema delle elementari descrisse così il mio lavoro: “Papà più che scrivere fa le parole crociate”. Era per via di tutti quei buchi...».

Lei ha appena scritto un romanzo, Le mani sul fuoco. È quasi un’inchiesta giornalistica...


«È nato da un’inchiesta. Volevo trattare del tema degli incendi. Sui giornali italiani non passa. In forma di romanzo, in cui al fondo c’è molto di vero, è più facile coinvolgere il lettore. Lo ridico: la scrittura aiuta».

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