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«The Black Dahlia» un buon noir con deboli attori

Josh Hartnett e Aaron Eckhart non valgono un Russel Crowe. De Palma: «Ora preparo un prequel degli Intoccabili»

Maurizio Cabona

da Venezia

«I ricchi sono diversi e muoiono in modo diverso». La battuta di stile chandleriano echeggia in The Black Dahlia (La dalia nera) di Brian De Palma, tratto dal romanzo di James Ellroy (Mondadori, 1989 e 2006), ambientato a Los Angeles nel 1946-1947, che è anche l’epoca del Lungo addio, ultimo romanzo compiuto di Chandler. Del quale il libro di Ellroy e il film di De Palma - che ieri ha aperto, in concorso, la Mostra di Venezia - ricalcano scontri sociali e amarezze esistenziali, elementi distintivi del noir rispetto al giallo, dove l’attenzione si concentra sulla ricerca del colpevole.
The Black Dahlia è un film di genere. La Mostra di una volta non lo avrebbe ammesso, ma è meglio un buon film così che un cattivo «film da festival», di quelli che non mancheranno da qui al 9 settembre. Si noti che questo di De Palma è l’ultima ricostruzione del dopoguerra californiano di una felice serie cominciata dal Grande sonno di Hawks (1946), continuata da Chinatown di Polansky (1975) e culminata in Los Angeles Confidential di Hanson (1997), tratto da un altro romanzo di Ellroy.
The Black Dahlia racconta di due poliziotti, ex pugili, che indagano sull’assassinio di una pornoattrice e prostituta, poi fatta a pezzi. Il film ha un vizio d’origine: deriva da un soggetto esteso e intricato; e ha limiti di realizzazione: Josh Hartnett e Aaron Eckhart, i protagonisti, non valgono Russell Crowe e Guy Pearce di Los Angeles Confidential; Vilmos Zsigmond fotografa con una luce giallo-sbiadita e lo fa per «raffreddare» la solarità novembrina, ma alla fine riesce solo a rendere sgradevole la visione; casa e vestiti di Scarlett Johansson, invece, sono stupendi come ricostruzione d’epoca, ma troppo fini per il personaggio di una prostituta.
Dettagli che forse lo spettatore non coglierà. Come non coglierà che la Los Angeles del 1947 sia stata ricostruita nella Sofia (Bulgaria) del 2005. Conta solo come The Black Dahlia delinea la somma dei suoi incubi. Agli italiani gli eventi reali evocati dal film, come gli scontri di piazza e il delitto di cui fu vittima Betty Short (l’insoluto caso dove anche Orson Welles fu sospettato come assassino), diranno poco. Ma toglieranno illusioni a chi vuol credere che il paradiso sia sul Pacifico.
Reduce affaticato della stagione autoriale di Hollywood, De Palma restituisce l’essenza del romanziere politicamente scorretto Ellroy. Ci voleva lui, a fine carriera, per portare sullo schermo la sceneggiatura di Josh Friedman che da oltre un decennio - nel 1997 il film doveva farlo David Fincher - vagava da una scrivania all’altra.
«In questa storia - mi dice De Palma - tutti mentono. In ogni scena cruciale i personaggi dicono l’opposto di quanto avevano detto prima. Sono tutti compromessi». E aggiunge: «Ho inserito l’indagine in uno sfondo dove ci sono altre cose. Gran parte della storia è raccontata in modo indiretto. Si pensa: “Questa è la cosa importante”. Ma non lo è». Quanto al suo stile di regia - parso appannato quanto ricercato in Femme fatale, presentato a Cannes nel 2002 -, dice: «Voglio parlare visivamente. Dirigere è relativamente semplice. Se hai gusto e sai guidare gli attori, girerai un buon campo medio o un primo piano. Ma ormai la maggior parte della gente è cresciuta con la tv. Così molti registi presentano dialoghi a due o a tre, e riprese con la macchina a spalla».

E poiché il passato (suo Gli intoccabili) gli porta bene, mentre il futuro (Mission to Mars) no, De Palma prepara «il suo prologo, ambientato fra il primo dopoguerra dell’ascesa di Al Capone e la strage di san Valentino nel 1929».

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