A Bologna i lavavetri li caccia via solo il racket

Dopo trenta minuti di spazzola arriva l’ordine: «Tu qui stai solo se lavori per me»

Nino Materi

nostro inviato a Bologna

La mia carriera di lavavetri «autonomo» dura una trentina di minuti. Il tempo di arrivare a Bologna e piazzarmi all’incrocio tra viale Repubblica e via Stalingrado, uno dei punti più gettonati dai vu’ lavà che il sindaco Sergio Cofferati vorrebbe opportunamente togliere dalla circolazione per i loro «atteggiamenti aggressivi» nei confronti degli automobilisti restii a sottostare allo stillicidio del parabrezza pulito a tutti i costi. Armato di spray e pelle di daino, anch’io, quando scatta il rosso, mi avvicino deciso alle vetture e do una rapida lustratina dopo essermi premurato di sollevare il tergicristallo. In circa mezz’ora incasso dai miei clienti motorizzati molti gesti di stizza, ma anche un totale di 5 euro di mancia. Non è un grande incasso, però va considerato che lungo lo stesso viale ci sono altri due «professionisti» sicuramente più pratici di me, nonostante la giovane età. Entrambi sono veloci non solo a maneggiare gli attrezzi del mestiere, ma anche a notare l’intruso che sta occupando il loro territorio. A dividersi la zona ci sono già bengalesi e rom, ingaggiati e diretti non si sa bene da chi.
Ma basta attendere un po’ ed è la stessa «organizzazione» a farsi viva. Uno dei due lavavetri ufficiali caccia infatti dal marsupio il cellulare e telefona a quello che probabilmente è il suo «principale». Trascorrono circa dieci minuti ed ecco materializzarsi un uomo che mi chiede chi sono e cosa faccio lì. Per un attimo penso che possa trattarsi di un vigile in borghese, uno di quelli che Cofferati ha promesso di sguinzagliare nella sua offensiva contro «l’attività illecita» dei vu’ lavà. Si tratta invece di una persona di mezza età dall’accento straniero (romeno? bulgaro?) che mi spiega che io a quell’incrocio non posso «lavorare»; usa proprio questo termine: «lavorare». Gli dico che sono appena arrivato a Bologna e che un amico mi ha detto che facendo il lavavetri ai semafori si può sbarcare il lunario. Il nostro «controllore» è irremovibile: «Tu qui non ci puoi stare a meno che... ». A Meno che? «Se ti interessa, c’è una persona con cui mettersi d’accordo».
Di più non dice, anche se la prospettiva è fin troppo chiara: rinunciare allo status di lavavetri «autonomo» e accettare quello di vu’ lavà «subordinato». Subordinato a chi? Il sindaco Cofferati nei giorni scorsi ha usato il termine più crudo: racket. Ma in questi giorni a Bologna, per spiegare l’improvviso furore legalitario di Cofferati, si fanno le congetture più fantasiose, compresa quella che vorrebbe l’ex sindacalista rosso offeso per ragioni personali. Molto più pragmatica è però l’interpretazione di un automobilista bolognese: «Sparando sui vu’ lavà si finisce sui giornali, ed è ciò che Cofferati vuole». Comunque una cosa è certa: la campagna «semafori puliti» lanciata (a parole) da Cofferati non ha sortito finora alcun effetto, se non quello di ribadire il radicamento delle diverse bande di lavavetri che si sono divise la città in base alle etnie: bengalesi nella zona nord, rom in quella sud. Un duopolio a prova di multa (50 euro, la sanzione prevista per chi importuna gli automobilisti).
Peccato che da quando la settimana scorsa il «Cinese» ha annunciato il giro di vite nei confronti degli stranieri che con «sempre maggiore prepotenza» chiedono «oboli per prestazioni non richieste», i vigili urbani bolognesi non abbiano fatto neppure un verbale. Senza contare che sul povero Cofferati si è abbattuta una gragnuola di critiche che hanno accomunato trasversalmente curia e partiti di sinistra. Passi per il vicario episcopale, don Giovanni Nicolini, per il quale l’iniziativa del primo cittadino «fa male ai lavavetri, ma soprattutto ai nostri ragazzi che vengono profondamente diseducati davanti a un problema affrontato in maniera sbagliata». Passi per il comandante della polizia municipale, Roberto Mignani, il quale ha candidamente ammesso di «non avere ricevuto in materia nessuna nuova circolare». Passi per il questore, Francesco Cirillo, apparso scettico sul rischio racket paventato dall’ex leader della Cgil. Passi per la Procura della Repubblica che non ha aperto nemmeno lo straccio di un’inchiesta. Ma che dire degli stessi compagni di partito di Cofferati che, senza pietà, gli hanno dato del «guerriero padano», paragonandolo addirittura al sindaco-sceriffo di Treviso, il leghista Giancarlo Gentilini?
Il «Cinese» c’è rimasto male («chi mi critica, favorisce la destra»), e a tirarlo su non è certo la solidarietà mostrata nei suoi confronti dall’onorevole Borghezio e dai vari esponenti di Forza Italia e An. E la sua maggioranza invece? Tutta compatta contro di lui. Una contrapposizione, comunque, totalmente virtuale considerato che la realtà dei lavavetri «fuorilegge» non è cambiata di una virgola. E per averne la riprova basta fare un rapido giro lungo via Murri, via Massarenti, viale Gozzadini, via Mazzini, viale Petramellara, via San Donato. Insomma, ovunque ci sia un semaforo, lì troverete - attrezzati più di prima - i soliti lavavetri con magari a pochi metri di distanza un vigile, un carabiniere o un poliziotto tutt’altro che preoccupati per la presenza degli irregolari con lo spazzolone. E fossero solo i vu’ lavà. Non c’è supermercato, infatti, che non abbia schierata all’ingresso una corte dei miracoli: ambulanti abusivi, bambini costretti a mendicare, uomini e donne che ostentano handicap fisici tanto plateali da sembrare una drammatica sceneggiata.

Stesse scene (comuni, del resto, a gran parte delle metropoli italiane) anche in pieno centro: in Strada Maggiore o sotto il Pavaglione, accattoni sorvegliati a distanza da chi di questa disperazione ha fatto un business. È questo il racket che Cofferati vorrebbe combattere. È questo il racket che Cofferati non riesce a sconfiggere.

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