Bomba sui Giochi: è terrore fra gli atleti

Due terroristi attaccano una stazione di polizia causando la morte di 16 agenti. Arrestati gli autori della strage: sotto accusa estremisti islamici. Nella cittadella sportiva si respira l'inquietudine

Bomba sui Giochi: 
è terrore fra gli atleti

Pechino - Gli uiguri. Chi erano costoro? Non fatevene una colpa, se non lo sapete. I primi a riconoscere che sono dei Carneadi, sotto il profilo geopolitico, ma anche sotto quello della Settimana enigmistica sono proprio loro, gli abitanti dello Xinjiang, la riottosa, fiera regione nordoccidentale a maggioranza musulmana della Cina. È laggiù, al lontano ovest, ai confini turcofoni e musulmani che guardano preoccupati i governanti cinesi, temendo che le Olimpiadi possano fare da palcoscenico e da cassa di risonanza agli indipendentismi e alle tensioni sotterranee che incrinano la «serena armonia» invocata, anzi comandata, dal presidente Hu Jintao.

Le bombe irredentiste contro la stazione di polizia di Kashgar, che ieri sono costate la vita a 16 gendarmi (mentre altrettanti sono rimasti feriti) servono soprattutto a questo: a far sapere al mondo, ora che gli occhi del mondo sono rivolti a oriente, che in Cina non c'è solo un problema Tibet. Che il Dalai Lama, con rispetto parlando, è un insuperabile mattatore, bravissimo a rubare la scena. Una star mediatica come Richard Gere, l'attore americano che è andato in Tibet a fare pubblicità a una marca di automobili italiane. Ma che insomma il problema forse più grande e più serio, anche per le sue possibili implicazioni di natura fondamentalista, si chiama Xinjiang. O non è qui, tra le montagne del Pamir e il Karakorum, tra l'altro, che Osama Bin Laden (posto che sia ancora vivo) avrebbe stabilito il suo alto comando dopo la fuga dall'Afghanistan? E non appartenevano forse all'Etim, il Movimento islamico del Turkestan orientale, parecchi dei combattenti islamici filo-talebani poi finiti nella prigione di Guantanamo?

Sicché, a quattro giorni dalla grande cerimonia di apertura delle Olimpiadi fortissimamente volute da Pechino, la minaccia del terrorismo, sempre evocata ma scacciata come uno sgradevole incubo prende seriamente a turbare i sonni del regime, già sbertucciato dalle parti di piazza Tienanmen da una cinquantina tra uomini e donne che ieri, prendendo alla sprovvista la polizia, hanno inscenato una vivace contestazione. Protestavano, quegli uomini e quelle donne, per essere stati sfrattati con la forza, in cambio di quattro soldi, dalle loro case nel quartiere di Qianmen, destinato a ospitare negozi di lusso. Insomma, se salta il tappo potrebbero essere Olimpiadi piuttosto effervescenti, per così dire.

Storicamente lo Xinjiang, per tornare al sanguinoso attentato di ieri, ha sempre fatto parte del Regno di Mezzo. Ma non è questo il motivo per cui Pechino non ha alcuna intenzione di allentare il pugno di ferro a Urumqi e dintorni. Grande come l'Alaska, confinante con otto nazioni, lo Xinjiang custodisce il 30 per cento delle riserve petrolifere del Paese, oltre a ricchi giacimenti di metano e a filoni auriferi.

Dal 1949, quando Mao Zedong e le sue guardie rosse presero il potere, i cinesi non hanno lasciato nulla di intentato per soffocare i gruppi separatisti. Il modello cui tuttora si ispira il governo centrale di Pechino somiglia come una goccia d'acqua a quello elaborato a suo tempo dai serbi nel Kosovo: avviare verso quelle lontane terre (lo stesso vale per il Tibet) carovane di coloni, alterarne il profilo etnico, cambiarne i connotati. I cinesi han vengono persuasi, con incentivi economici e facilitazioni di tipo sociale a trasferirsi in quelle regioni occidentali, mentre Pechino ha speso intorno ai 100 miliardi di dollari nella costruzione di infrastrutture destinate soprattutto allo sfruttamento dei giacimenti di petrolio e gas.

Al passato regime serbo di Slobodan Milosevic, la mossa non riuscì, e il Kosovo è oggi saldamente nelle mani di quella che fino a pochi anni fa veniva definita «minoranza albanese». Ai successori di Mao la politica di colonizzazione forzata è invece riuscita, al punto che gli uiguri, un tempo il 90 per cento della popolazione, oggi sono meno della metà.

Con i cinesi, tuttavia, gli uiguri hanno niente a che vedere. Religione, lingua, perfino la cucina di questi ultimi è diversa. Musulmani, di ceppo linguistico turcofono, culturalmente vicini a tagiki, uzbeki, kirghisi; più appassionati al kebab che al riso, gli uiguri diedero per la prima volta fuoco alle polveri nel 1997, con una serie di sommosse soffocate nel sangue. Nel 2001, prima ancora degli attentati dell'11 settembre a New York, la polizia cinese fece irruzione in alcune moschee clandestine di Korla mettendo poi nelle mani del boia alcuni fra i responsabili dei luoghi di culto.

Dopo l'11 settembre, e la «guerra preventiva» lanciata e benedetta da George Bush, le autorità di Pechino hanno avuto buon gioco nell'accentuare la repressione. Un sanguinoso show-down, a ridosso delle Olimpiadi, non sarebbe un bel biglietto da visita, per Pechino.

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