Brabham, il pilota ingegnere che correva con la barba finta

Era un duro chiamato «Blackjack»: ha vinto tre titoli. Quel mondiale alla guida di un bolide costruito da lui

Enrico Benzing

Straordinario! Hanno spostato, per la prima volta, un po' più avanti il Gp d'Australia e dove è finita la consueta apertura di Melbourne? Proprio al 2 aprile, la data di nascita di Jack Brabham, il più grande campione di quel continente. Buon compleanno, Blackjack. E sono la bellezza di ottanta candeline. Commovente. Specie per me, che sono quasi suo coetaneo e che ho assistito a tutte le sue maggiori imprese. Ma attenzione: non trasformiamo il piacere di parlare di lui in una specie di epitaffio. È una cosa che i vecchi campioni detestano. Perciò, ho cominciato col chiamarlo Blackjack, come facevano molti suoi rivali e perfino alcuni amici. Al contrario, avrei dovuto chiamarlo Sir Brabham, giacché l'onorificenza assegnatagli dalla regina Elisabetta vale il doppio sul petto di un australiano di nascita, che in Gran Bretagna ha costruito la sua ammirevole carriera di primo pilota-costruttore dell'era moderna, sulle orme di Vincenzo Lancia e di Alfieri Maserati, ed è diventato per tre volte campione del mondo.
Avrei potuto chiamarlo anche Old Jack, come usavano in molti, perché ha corso (e vinto) fino a quarantaquattro anni. Ma questo a lui seccava, tanto che, una volta, con molto humour, si è presentato alla partenza di un gran premio con una lunga barba finta, che gli scendeva dal casco. E poi, in questa festosa ricorrenza, conta soltanto il desiderio di fargli un piccolo omaggio. Anche per ricambiare un grande regalo - così, almeno, mi era apparso - che mi fece molti anni fa, quando già i tecnici cominciavano a fare gli «stolidi» (detto bonariamente) con il segreto dell'alesaggio. Infatti, Jack non era soltanto il costruttore - dopo la crisi-Cooper del 1961 - dei suoi incredibili telai (sapeva mantenere sempre attivi ventitré parametri), ma si era fatto motorista esperto, con la Repco, quando ancora era un sacrilegio il rifiuto di un dato basilare. Eppure, al culmine dell'evoluzione del suo V8, è affiorata la grave lacuna. Ricordo di aver atteso il suo arrivo a Francorchamps, dietro ai vecchi box, prima delle prove, e di essermi lamentato vivacemente. Mi sembra di rivedere il suo sorriso divertito. Non solo mi rivelò immediatamente l'alesaggio, ma aggiunse che le mie tavole tecniche finivano anche sulla stampa specializzata inglese e chiamò il suo capo-ingegnere, il mitico Ron Tauranac, con altri tecnici, per intimargli di non fare mai più cose simili. Capito che uomo era Blackjack? Un vero uomo di tecnica e di sport. Altro che bandiera nera della nave pirata... Solo perché in corsa era quel che si dice un «duro»: non c'era modo di sorpassarlo. Eppure, non ha mai commesso una scorrettezza o una cattiveria. Era un po' testone e un po' irruente, ma sempre con grande finezza di guida. Era un grande maestro nelle traiettorie. Uno dei suoi segreti era lo studio delle piste dall'alto: provetto aviatore, l'ho visto la prima volta roteare sul circuito di Reims, con il suo piccolo Cessna, e passare e ripassare lungo le veloci curve. I suoi continui sorpassi a Zandvoort, alla curva Tarzan, sono rimasti memorabili. Non parliamo di Silverstone, con Surtees, o di Brands Hatch.
La rivelazione, per me, è stata in una «corsetta» di Formula 2 all'Aerautodromo di Modena, a fine 1960, anche se in Formula 1 correva dal 1955. A Silverstone, nel '56, aveva una bella Maserati, già guidata in Australia. Poi, l'ho visto a Montecarlo e perfino a Pescara, a fine schieramento, con una modesta Cooper. Mi aveva colpito solo la sua fibra coriacea: sapeva arrivare in fondo, ciò che equivaleva ad un buon piazzamento, con le selezioni di allora. A Modena, però, è stato speciale: usciva sistematicamente dall'ultima curva con una forza e con un sovrasterzo incredibili, per guastare la festa alle Ferrari 1.500.

Non guadagnava un metro, ma che spettacolo! Il vero Brabham è nato lì, in una delle nostre roccaforti. E si è fatto amare perché si è mostrato subito un gran tecnico. La dote che, ai miei occhi, ha sempre contato più di cento allori.

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