Un futuro padre, disoccupato. Briatore Flavio da Verzuolo, provincia granda, come dicono in Piemonte quando parlano di Cuneo e dintorni. Sento gli applausi, immagino la ola di rivali, concorrenti, nemici, invidiosi, gelosi. Del resto per Briatore da sempre questa è la vita, bella ma sul rasoio a doppia, tripla lama. Quando era bel giùvin, al paese suo lo chiamavano tribula, per come si fosse incasinato l’esistenza quotidiana e da questo gomitolo riuscisse sempre a sbrogliarsi. Ha ribadito l’insegna del casato in questa ultima vicenda fastidiosa, sporca, volgare, violenta, non bastano e non servono gli aggettivi per fare luce. Intanto per tribula è buio, almeno oggi. Facile scorticare il personaggio adesso che il re è nudo, lui e il suo billionaire, lui e le sue spettacolari donne metà di mille, lui e i suoi panfili, le sue scarpe di velluto con sigla, rigorosamente made in United Kingdom, lui e la sua improbabile e ridicola compagnia di giro, api ronzanti attorno al miele, lui e il matrimonio con la soubrette sconosciuta, Elisabetta Gregoraci.
Tutta roba recente, di fresco conio ma non è che il passato sia povero di fatti e di idee per un geometra piazzista assicuratore, gestore di ristoranti, maestro di sci, discografico. Anni veloci, anni feroci, anche in tribunale, accuse di truffa, vociare di agguati con bombe, pure condanne al gabbio evitate con viaggio alle isole Vergini, nome questo che fa sorridere pensando al prima e al dopo.
Da quando Briatore si è messo nel mezzo del mondo dello show, dico quello delle discoteche, della vita smeralda, dei bulli e delle pupe affiancato a quello della Formula 1, roba da trecento all’ora non soltanto in pista, da quel giorno, dicevo, ha incominciato a dare fastidio ai più, a quelli che preferivano le mezze luci agli abbaglianti, a quelli che offrono agli astanti l’immagine propria di mammole, santi e puri mentre su un altro tavolo giocano sporco magari usando un mazzo di carte taroccate.
Briatore va preso, forse a piccole dosi, per quello che è e che rappresenta. Squalo in mezzo a piranha non certo a pesciolini rossi, drageur tra nani e ballerini. Ha fatto pure beneficenza senza propagandarla, se non in casi rari, ha aiutato e aiuta comunità di tossici senza illustrare la donazione con il solito filmato e l’intervista da repertorio. Ha affrontato e superato il male che improvvisamente gli si è presentato. Non ne ha fatto uno spot di miseria e nobiltà.
Faccia un passo avanti chi poteva immaginare che sarebbe entrato in chiesa per unirsi in matrimonio ad una signorina calabrese, di lui più giovane di anni trenta. Faccia un altro passo chi avrebbe immaginato che alla soglia dei sessanta sarebbe diventato padre. E, visto che siete avanzati, chi avrebbe ipotizzato il beau geste? Le dimissioni, il grande atto per salvare l’azienda, la Renault e tutto l’ambaradam che ne segue? L’ultima decisione non può e non deve essere utilizzata per la celebrazione del nuovo eroe di quest’epoca che è alla ricerca disperata di simboli, icone, martiri, bandiere e miti. Trattasi di roba studiata, ordinaria, piuttosto astuta. È una scelta strategica intelligente, politicamente corretta, una sorta di pit stop in attesa che qualcosa possa accadere là dove osano le aquile e dove si agita il condor di Mosley, prossimo alla partenza pure lui, tra un frustino e un festino.
Briatore Flavio si chiama fuori e il plotone ricarica i fucili che già hanno sparato dalla fondazione di Verzuolo e dintorni. L’accusa del Piquet figlio è bastarda, lo scenario è clamoroso, il mondo della Formula uno piazza in pole position, dopo gli spioni, anche gli sciacalli. Era prevedibile che la volpe finisse in pellicceria, come già si sono affrettati a scrivere, sulla lapide funeraria, i soliti noti. I giochi, però, non sono fatti.
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