Pensava di aver scritto un pezzo leggero, diverso dal solito, per spiegare ai francesi come gli italiani vedono loro stessi. E invece, Philippe Ridet, corrispondente da Roma di Le Monde, ieri mattina leggendo la Repubblica ha scoperto di aver scritto un altro articolo, dai toni drammatici, in cui descrive lItalia come un Paese che, con Berlusconi, intimidisce i giornalisti stranieri e adotta «interventi di solito praticati da governi autoritari dittatoriali». O almeno così lo ha interpretato Bernardo Valli, firma storica del quotidiano diretto da Ezio Mauro, secondo cui Ridet sarebbe stato addirittura «convocato alla Farnesina». Davvero?
«Assolutamente no», risponde Ridet al Giornale.
E allora che cosa è successo?
«Ciò che ho scritto. Lo scorso febbraio io e il corrispondente del Wall Street Journal siamo stati invitati dal ministero degli Esteri italiano a spiegare a un gruppo di giovani diplomatici, riuniti in seminario, come la stampa straniera vede il vostro Paese».
Avete ricevuto pressioni?
«Per nulla, il clima era cordiale e siamo stati trattati con molta simpatia. Daltronde queste sono iniziative ricorrenti in ogni Paese. Anche in Francia e in Gran Bretagna i governi invitano i giornalisti stranieri per spiegare a futuri addetti stampa o consoli o ambasciatori, le logiche e le aspettative dei media».
Ma perché «Repubblica» scrive che lei è stato convocato?
«Dovete chiederlo a loro, io non sono mai stato convocato alla Farnesina e non ho affatto accusato Berlusconi di essere un dittatore. I miei rapporti con Palazzo Chigi sono ottimi».
Eppure leggendo Valli si ha limpressione che lei abbia lanciato un durissimo «jaccuse»...
«Il mio non era un editoriale, ma una lettera dallItalia ovvero un pezzo di impressioni, scritto in punta di penna che intendeva essere sottile, come daltronde è il vostro Paese, contrariamente a quanto pensano molti miei connazionali. E il titolo ben rispecchiava lo spirito del mio articolo».
Già, il titolo è «Specchio, mio bello specchio...».
«Ed è dedicato allautolesionismo degli italiani, che spesso parlano male del proprio Paese, ma che in certi frangenti, come in occasione del terremoto, riscoprono lorgoglio nazionale. Tra laltro citavo proprio un articolo del Giornale, che lamentava come lItalia sia vittima, sulla stampa internazionale, dei pregiudizi: la terra della pizza, del mandolino e, da poco, del razzismo».
Berlusconi biasima spesso i giornali stranieri e lei cita alcuni esempi. Ma le rimostranze del premier sono fuori dalla norma rispetto ai governi di altri Paesi?
«No. Per tre anni, dal 95 al 98 ho seguito Nicolas Sarkozy in Francia e la situazione era analoga. I giornalisti criticano, attaccano; i politici si difendono e parano i colpi, talvolta esercitando pressioni o lamentando i trattamenti ingiusti dei media. Ma tutto questo fa parte delle regole del gioco e rientra nella normale dialettica tra la stampa e il potere».
Ma lei parla solo male del governo italiano?
«Io cerco di essere oggettivo, di calarmi nella vostra realtà per spiegare ai lettori di Le Monde comè davvero il vostro Paese, quali sono le dinamiche, i valori, i pregi e i difetti della vostra società. Da parte mia non cè nessun pregiudizio nei confronti dellItalia e come potrei? Mia moglie è italiana, i miei figli bilingue. E non è mia intenzione polemizzare con Palazzo Chigi. Se ritengo che il governo italiano debba essere criticato lo scrivo e ho anche spiegato, ai vostri diplomatici, le quattro ragioni per cui lItalia non gode di buona stampa nel mondo. Ma mi comporto allo stesso modo quando ritengo che il vostro governo debba essere elogiato».
Ad esempio?
«Sto scrivendo un articolo su Bertolaso, che secondo me ha lavorato benissimo in occasione del terremoto. E secondo me Santoro sbaglia: è lecito biasimare la Protezione civile, ma al momento e nel contesto giusto. Mi sembra che il comportamento in Abruzzo non giustificasse un attacco così forte».
Ma come spiega linterpretazione di «Repubblica»?
«È un giornale di sinistra e ha cercato un pretesto per attaccare Berlusconi. Ma i commenti più duri erano di Valli, non miei».
Marcello Foa
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