Bye bye Italia. Se ne vanno tutti

Charter in crisi, pioggia di cancellazioni. Il broker francese Nick Dean: "Situazione italiana insostenibile, è in atto una caccia alle streghe e ora scappano all’estero anche gli onesti". Un disastro economico da Portofino a Capri: a oggi il settore ha già perso 1 miliardo

Bye bye Italia. Se ne vanno tutti

«L’Italia è sempre stata la meta più ambita dal charter internazionale: Portofino, Porto Cervo, Positano, Capri erano mete visitate a ripetizione. È stata! Oggi piovono le cancellazioni. L’affannosa ricerca di possibili evasori colpisce nel mucchio tutti i possessori di barche, europei o extra europei, grandi e piccoli, professionali o privati. Risultato: tutti fuggono all’estero, anche gli onesti, che sono la stragrande maggioranza, con ingenti danni all’economia italiana». La denuncia arriva da un esponente di spicco dell’associazione dei broker francesi (Myba), Nick Dean. Il quale parla di «situazione italiana insostenibile». E ricorda che, a seguito della «sconsiderata caccia alle streghe in corso nel nostro Paese, i proprietari di imbarcazioni commerciali extra Cee - di gran lunga le più numerose - che operano in Italia sono obbligati a eleggere un rappresentante fiscale, aprire una partita Iva e poi assoggettare ad Iva le tariffe dei charter se iniziati in Italia. Di conseguenza, americani, arabi e cinesi, in fuga dal nostro Paese, vanno ad affollare i porti della Costa Azzurra dove l’Iva sui charter non viene addebitata. Con queste regole insostenibili, di fatto, si è bloccato il settore charter in Italia. Poi sono arrivati Briatore e Bracco e la «frittata è fatta». Una sola società, per lo più di proprietà italiana - la Fraser Yacht - perde 10 milioni di euro per mancati noleggi. Considerando il numero delle società di charter che operano in Italia, ormai paralizzate, e la caduta a picco del relativo indotto, la perdita si può stimare prossima al miliardo: uno yacht da 65 metri costa 500mila euro di noleggio alla settimana e nell’arco di 7 giorni viene spesa una cifra equivalente in servizi e beni; 10 settimane valgono 10 milioni; 100 yacht - ma sono molti di più - valgono 1 miliardo. E se avessimo sbagliato il conto, ricordiamo che gli yacht professionali in Italia sopra i 30 metri sono 1.200. Se poi a queste perdite si aggiungono quelle per mancati refit e manutenzioni nei cantieri italiani, il danno è enorme: questo business era importantissimo per l’occupazione, quasi una sopravvivenza per molti cantieri che compensavano proprio in questo modo la mancanza di nuovi ordini. Ma c’è di più: l’impatto psicologico sugli acquirenti di barche nuove e usate, equipaggi disoccupati, posti barca vuoti nei porti. Anche i proprietari di imbarcazioni con bandiera italiana, utilizzate sempre nel rispetto della legge per il noleggio (con clienti soprattutto americani, arabi e russi) terrorizzati da questa situazione incomprensibile fuggono in Francia. E per completare il quadro, si vede una miriade di funzionari della Guardia di Finanza aggirarsi per i porti alla ricerca di qualcuno da castigare. Nel 2009 fioccavano verbali per tutti coloro che non avevano a bordo il documento fiscale anche se è obbligatorio avere a bordo soltanto il contratto di noleggio. Il rilievo «errato» era addirittura un prestampato. Tuttavia, nel frattempo, si scatena un attacco mediatico di chi vuol cavalcare una demagogica caccia alle streghe. Mercoledì 16 giugno un quotidiano nazionale ha pubblicato un servizio a tutta pagina contro gli ormeggi in Italia dei grandi yacht, dimenticando che su 140mila posti barca, quelli per grandi yacht sono poche centinaia. Forse mille. Una riflessione. L’Italia vanta molti più turisti della Francia, ma incassa molto meno dei «cugini». Il governo, quindi, si è posto l’obiettivo strategico di alzare il livello e la qualità del turismo e quindi la spesa pro capite. In questa ottica - e per fortuna - nessuno pensa di ficcare il naso negli alberghi a 5 stelle, nei centri termali, a Cortina o Courmayeur, a Positano o Taormina. Però, guarda caso, si dà l’ostracismo ai grandi yacht, dimenticando che quasi tutti i porti citati per eccesso di tariffe sono pubblici, o controllati dal pubblico, come Capri, Portofino, Portisco, Procida e altri ancora. Ma vogliamo capire una volta per tutte che l’80% del fatturato nautico italiano è legato agli yacht di lusso e senza un mercato interno, si strangola anche l’esportazione di questi capolavori di artigianato italiano? Sacrosanti gli spazi per le barche piccole. Ma è sufficiente mettere a disposizione della nautica le migliaia e migliaia di metri di banchine esistenti e ora in disuso: il cemento in mare l’abbiamo già buttato, ora usiamolo e valorizziamolo. Sempre nella vicina Francia ci sono i porticcioli storici zeppi di barche minori a tariffa agevolata riservata ai residenti locali e accanto ci sono i prestigiosi «marina» affollati di megayachts che ricoprono di dollari indotto e servizi. Basta dare un’occhiata al porto di Antibes. Tra l’altro la caccia alle streghe penalizza l’intero comparto nautico: la più completa filiera industriale italiana (dal maestro d’ascia all’elettronica, dalle propulsioni agli acciaisti, dai falegnami ed elettricisti ai carrozzieri). Scuola di mestieri e di tradizioni, invidiata da tutto il mondo, imitata in tutti i Paesi, ma che ci vede sempre leader. Ma per quanto ancora? Stiamo mettendo a rischio il nostro primato.

La nostra è una vera industria del made in Italy: nessuna azienda italiana del settore, né i leader né i followers, né le grandi né le piccole, hanno in questi anni delocalizzato i loro core business e processi di fabbricazione nel paesi low cost. Al contrario hanno mantenuto le radici in Italia, nei tempi buoni e nei tempi cattivi. La risposta alla crisi non è abbandonare la barca, ma restare a bordo e rilanciare.

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