Il referendum dei giorni scorsi alla Fiat, il cui esito ha dato fiducia alle scelte di Sergio Marchionne e al suo progetto di accoppiare massicci investimenti e nuove regole contrattuali, ha riposto al centro dell’attenzione una città come Torino, che da tempo svolge una posizione peculiare all’interno della cultura italiana.
Per varie ragioni, nel capoluogo piemontese sembra prevalere una decisa vocazione progressista che ha finito il più delle volte per celebrare lo Stato e la sua mitologia. Va ricordato come Torino sia stata non solo la culla della grande industria italiana, ma anche come qui si siano particolarmente radicate quelle forze che, fin dagli inizi del Novecento, speravano di collettivizzare l’Italia. Non a caso, più di altri centri della Penisola è proprio il capoluogo piemontese a essere segnata dal biennio rosso (1919-20) e dall’occupazione delle fabbriche. Ed è all’ombra della Mole Antonelliana che Antonio Gramsci perseguì i propri progetti, mentre Piero Gobetti sognava di fare degli operai industriali l’avanguardia di una nuova borghesia. All’indomani del fascismo, la città torna a manifestare quello spirito: e non si tratta tanto di rilevare che a Torino più che altrove si è sentito il nuovo peso sociale - soprattutto negli anni Sessanta e Settanta - assunto dalle «tute blu». C’è ben altro, specie se si considera che quando in Italia di discute di Partito d’Azione e cultura azionista è esattamente su taluni ambienti intellettuali torinesi che si finisce per concentrare l'attenzione. Proprio una figura assai caratteristica di quella borghesia neoilluminista, Norberto Bobbio, fu talvolta definito il «papa laico», quasi a vedere in lui il punto di riferimento di quell’Italia giacobina che si autorappresenta migliore e che in realtà - fin dalle elezioni del 1948 - ha rischiato a più riprese di condurre il Paese verso esiti disastrosi.
C’è però pure «un’altra Torino», capace di esprimere molto di meglio: basti pensare a due teorici del diritto caratterizzati da grande originalità di pensiero come Alessandro Passerin d’Entrèves e Bruno Leoni (che, come Bobbio, furono allievi di Gioele Solari), ma anche all’economista Sergio Ricossa, che in questi mesi sta conoscendo una significativa riscoperta da parte dei lettori. Autore di un volume dal titolo provocatorio, Straborghese (del 1980, ma ora riedito per iniziativa di IBL Libri), Ricossa conosce bene la propria città e i suoi ceti dirigenti, oltre che le logiche intellettuali che in essa prevalgono. E non a caso la sua difesa dell’autentico spirito borghese può essere letta come un atto d’accusa nei riguardi di quelle élite dominate dai luoghi comuni del «perfettismo»: un’espressione che egli usa per criticare la pretesa di modificare la società tutta intera, nell’illusione di sapere di cosa abbia bisogno.
Grazie alla lezione di Ricossa si può meglio capire quella Torino che, con una sua rassicurante periodicità, prova a porre rimedio ai mali oscuri che l’affliggono. Come quando nel 1980, dopo trentatré giorni di sciopero, i quadri di corso Marconi organizzarono una manifestazione che sfociò nella «marcia dei Quarantamila», con la quale la città volle tagliare i ponti con le velleità rivoluzionarie della Cgil, pretendendo che si riaprissero i cancelli e si tornasse al lavoro. Ma sempre a Torino, e non caso, pochi anni dopo si tenne quell’altra marcia che vide decine di migliaia di contribuenti sfilare lungo le strade per protestare contro un prelievo fiscale divenuto insopportabile. Quel giorno, il 26 novembre 1986, Ricossa c’era: e - insieme ad Antonio Martino e Gianni Marongiu - spiegò da un palco le ragioni più autentiche di quell’iniziativa tanto inusuale per l’Italia, espressione di una società ormai stanca di essere oppressa da politici e burocrati.
Il senso della lezione ricossiana si ritrova in quella presenza coraggiosa - che gli costò molte condanne da parte della cultura ufficiale - allo stesso modo che nei suoi scritti ora riediti da Rubbettino: in Maledetti economisti, uscito nei mesi scorsi, come nel Manuale di sopravvivenza a uso degli italiani onesti che è annunciato per questa settimana (entrambi preceduti da una prefazione di Lorenzo Infantino). In questi libri - come in altri già annunciati (Storia della fatica del 1974, Impariamo l’economia del 1988 e I pericoli della solidarietà del 1993) - emerge una prospettiva di grande rigore morale, che ha il coraggio di denunciare la retorica della solidarietà sbandierata da chi, al contempo stesso, sa condurre una vita da «furbo», avvantaggiandosi dei privilegi della redistribuzione. A più riprese Ricossa ha ricordato le proprie origini modeste. Non l’ha fatto per un vezzo, ma semmai per evidenziare come sia forte in lui la consapevolezza che non ci possa essere crescita né civiltà senza un processo tortuoso e senza un impegno severo. Da serio studioso qual è, egli sa bene che nessuna azienda può garantire salari soddisfacenti e buone condizioni di lavoro se non sa reggere la concorrenza, soddisfare i clienti, restare al passo con i tempi. Come scrive in Storia della fatica, purtroppo uno dei nostri problemi maggiori sta nel fatto che «lavoriamo in una economia che obbedisce a regole sulle quali sappiamo poco o nulla». Per giunta il trionfo delle idee socialiste ci ha portato in una situazione singolare: abbiamo elevato allo status di «diritti» taluni benefici economici e altre garanzie, con il risultato che ora che la crisi va aggravandosi a giudizio di molti in discussione non c’è solo un certo reddito, ma perfino la dignità umana.
Il voto di Mirafiori è però un segnale positivo: è la resistenza del buon senso e della ragionevolezza dinanzi al trionfo secolare di ideologie che hanno distrutto tanto e costruito ben poco.
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