C’È UN GIUDICE A RABAT

L’antica storiella tedesca è nota: trattato con arroganza da Federico II di Prussia, un mugnaio di Potsdam decise di non arrendersi e di chiedere giustizia. La frase che pronunciò di fronte all’imperatore - «Ci sarà pure un giudice a Berlino» - è diventata lo slogan di tutti coloro che lottano contro gli abusi del potere. Quando il piccolo riesce a vincere contro il più forte, commentiamo così: c’è un giudice a Berlino. È un commento e al tempo stesso la manifestazione del nostro sollievo: non sempre il mondo è ingiusto.
Forse da oggi entrerà nel gergo un’altra espressione, per definire non tanto la vittoria dei governati contro i governanti, quanto quella dell’efficienza contro la burocrazia; della severità contro il lassismo. Ogni qual volta registreremo un fatto di questo tipo potremo esclamare: c’è un giudice a Rabat.
I fatti sono questi. Su richiesta della Procura del Re presso la Corte d’appello di Rabat, la polizia italiana ha arrestato l’imam della moschea di Varese, Abdelmajid Zergout. I dettagli dell’operazione li racconta Stefano Zurlo a pagina 22. In sintesi: la magistratura marocchina accusa l’imam di terrorismo e chiede a noi italiani di spedirgli l’imputato per il processo.
Fin qui niente di strano. Singolare però è che la stessa accusa di concorso in terrorismo era stata mossa a Zergout anche dalla magistratura italiana. Il 24 maggio dell’anno scorso l’imam era però stato assolto dalla Corte d’assise di Milano: e con formula piena. I marocchini ora insistono dicendo che l’uomo è pericoloso, e noi potremmo pensare che sbagliano, perché la nostra magistratura ha già valutato i fatti e optato per l’assoluzione; o quanto meno potremmo pensare che siamo di fronte a due diverse interpretazioni entrambe rispettabili e fallibili al tempo stesso: colpevolisti i marocchini, innocentisti noi.
C’è però un piccolo particolare. Al processo celebrato in Italia l’imam di Varese venne sì assolto con formula piena, ma per un motivo molto semplice: secondo il pubblico ministero Elio Ramondini non c’era alcuna prova contro Zergout perché la giustizia italiana non aveva concesso le due rogatorie internazionali - in Marocco e in Francia - indispensabili per interrogare i testimoni. Alle ripetute richieste del pm, i giudici avevano risposto che i «tempi tecnici» erano troppo lunghi. Quindi: niente rogatorie niente testimoni; niente testimoni niente interrogatori; niente interrogatori niente prove; niente prove niente condanna. Per questo lo stesso pubblico ministero Ramondini, alla fine del processo, aveva chiesto polemicamente l’assoluzione «per impossibilità di ottenere le prove».
Ma le bizzarrie della burocrazia non erano finite. Una volta assolto, l’imam di Varese doveva comunque essere espulso e rimpatriato perché considerato «pericoloso» dal ministero degli Interni. Ma mentre Zergout e i suoi due coimputati si trovavano quasi già a Malpensa, il decreto di espulsione venne annullato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (non meno prudente di noi, quando si tratta di evitare accuse di razzismo). Alla fine dunque l’uomo poté tornare a Varese, alla sua famiglia e alla sua moschea. Salutò tutti con un doveroso «ringrazio la giustizia italiana, di cui ho sempre avuto fiducia».
Noi di fiducia nella giustizia italiana ne abbiamo un po’ meno. Non tanto perché siamo convinti che Abdelmajid Zergout sia colpevole: potrebbe benissimo essere innocente, per quel nulla che sappiamo di lui. Sappiamo però che, se non è detto che la magistratura marocchina abbia ragione, è certamente detto che la nostra ha avuto torto nell’impantanarsi nei «tempi tecnici».
Ora la Corte d’appello di Milano ha quaranta giorni di tempo per decidere se convalidare o meno l’arresto voluto da Rabat, e quindi può ancora succedere di tutto.

Ma intanto la nostra magistratura un risultato lo ha già ottenuto facendoci sperimentare la nostra capacità di adattarci al nuovo. Una volta infatti invidiavamo la giustizia americana, o quella inglese, o quella tedesca o quella francese. Adesso, quella marocchina.
Michele Brambilla

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