Nonostante i problemi che questo fatto suscita in tutti i partiti, l'elemento fondamentale della politica italiana sembra ancora la concentrazione dei due schieramenti in Berlusconi e Prodi. Berlusconi emerge dalle elezioni amministrative come il punto di coalizione di una grande forza liberale, in un senso assai diverso da quella storica del partito liberale. Sarebbe cosa consueta dire «liberalismo di massa», ma in realtà la televisione e il computer fanno scomparire il concetto di massa, che indica un'identificazione di pulsioni, con quello di pubblico. Massa suppone l'unità emotiva, pubblico la scelta individuale. Proprio il fatto di avere innanzi a sé un pubblico e non una massa, obbliga Berlusconi a cercare di raggiungere un consenso oltre i partiti della sua maggioranza, e del suo stesso partito, per creare l'unica maggioranza oggi possibile in Italia, unita da un fattore metapolitico come la garanzia della libertà.
Berlusconi come simbolo vale più di Berlusconi come leader. Il governo Berlusconi ha dovuto affrontare i passaggi più tempestosi degli anni Duemila: l'introduzione dell'euro, il terrorismo islamico, l'emersione di Cinindia, le difficoltà del sistema di piccole e medie imprese italiane a inserirsi nella globalizzazione. La ricetta di libertà e di progresso che egli ha impersonato nello Stato leggero e nelle grandi opere pubbliche è rimasta come messaggio anche se non ha avuto realizzazione. Berlusconi dunque resta un «uomo nuovo» ed è quello che egli cerca di dire con il Partito delle libertà, che si aggiunge ma nulla toglie alla realtà di Forza Italia esistente negli eletti di tutti i livelli e negli elettori che li esprimono. Si tratta di affiancare la dimensione politica con quella di un messaggio morale capace di andare oltre la semplice partecipazione democratica. Berlusconi fonda un movimento morale, civile, a cui è essenziale l'espressione politica, ma che non si realizza mediante la politica bensì garantendo la libera iniziativa degli italiani di buona volontà.
Quella di Prodi è un'altra storia, ha una radice più complessa. Egli cerca di ottenere il consenso non del popolo di sinistra e di centrosinistra, ma dei partiti della sua coalizione; e a essi si rivolge con cipiglio, dichiarando che debbano sostenerlo come presidente del Partito democratico e come governo. Senza di lui «si va tutti a casa».
Berlusconi si rivolge al suo popolo con un appello morale, Prodi si rivolge alla sua gente con il linguaggio del ricatto politico. È qui il vero dramma di queste elezioni, quello dei Ds. Il partito postcomunista è la più importante forza politica della storia italiana; con la sua cultura, anche in forma contraria come nel '68 e nel '77, ha dominato il pensiero politico del Paese. Esso è stato in grado di legittimare i partiti e le personalità politiche che potevano salvarsi dalla tempesta di Mani pulite. Insomma nell'Italia degli anni Novanta esso ha esercitato una certa egemonia. Unita alla presenza nella finanza nelle banche e nell'economia che era garantita al controllo del terzo fattore dell'economia italiana, il sistema cooperativo.
Ora esso è proprio per aver mantenuto la sua continuità con il Pci e il suo personale politico che ha indotto a pensarsi come forza di governo solo annullando la tradizione politica comunista in quella democristiana. Il Partito democratico è infatti una versione passabilmente laica della Dc, partito di centro che guarda a sinistra e delegittima la destra.
Non si porta tanta storia come quella che è sulle spalle dei postcomunisti italiani per annullare la militanza nelle primarie e il Ds nel Partito democratico. È una vera tempesta nichilistica tendente all'annullamento di sé stessi come unità politica, quello che investe oggi i postcomunisti. Essi sono ridotti a una coalizione di cui essi sono il numeratore e Prodi è il denominatore. E devono sopportare che Prodi si rivolga all'elettorato con la medesima ruvidezza del dilemma «o me o a casa» con cui tratta i suoi alleati.
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