Politica

La caccia ai compagni moderati

Nel corso della campagna elettorale parecchie anime belle hanno contestato al Cavaliere e a una parte del centrodestra gli accenti anticomunisti, come se questi fossero prova di una volgarità antistorica, la disdicevole espressione di un gusto politico retrò. Questi fantasmi: il comunismo è morto, che senso ha denunciarne il pericolo? Questo dicevano le anime belle, fingendo di non vedere che ben due formazioni della coalizione di centrosinistra si proclamavano comuniste, con ciò iscrivendosi al registro dei morti viventi.
La polemica oggi può considerarsi superata, l’ha autorevolmente chiusa Fausto Bertinotti, il quale ha dimostrato che il comunismo non muore tanto facilmente, gode, se non della buona salute, delle prerogative che taluni studiosi di storia chiamano della «lunga durata»; che lo stesso comunismo tende a sopravvivere alle proprie disfatte e a ripresentarsi con una serie di «coazioni a ripetere» che somigliano ai riflessi condizionati di Pavlov.
Si fa ma non si dice: Bertinotti pensa e agisce da comunista, anche se parla, o fa finta di parlare, da dirigente democratico che già avverte l’investitura a una funzione istituzionale di rilievo. Agisce da comunista, sì, perché la prima cosa di cui si è preoccupato è stata di marcare ideologicamente il territorio della maggioranza e del governo, battendo i compagni «sospetti», socialdemocratici, riformisti, pre e post-comunisti, insomma ha vinto il braccio di ferro con D’Alema. Gli anticomunisti possono aspettare, per prima cosa i comunisti devono liquidare (oggi politicamente, per fortuna, in altri tempi si regolavano diversamente) i falsi compagni, quelli che hanno smarrito la bussola ideologica, quelli che vengono a patti con la flessibilità e col mercato.
Bertinotti ragiona e progetta da comunista quando sostiene che sia compito suo e di quelli come lui «trasmettere» un modello di società, completo di valori conseguenti e funzionali, alla realtà italiana. È rimasto alle maledette «rivoluzioni dall’alto», calate dalle avanguardie fervide, onniscienti e onnipotenti (serrate nel partito, va da sé) a un popolo che non sempre ha chiari gli obiettivi e le leggi del divenire storico. E come si trasmette un modello di società a un popolo che ha la pretesa di considerarsi adulto e libero? Con le apposite cinghie di trasmissione? E quanto devono essere strette?
Grazie a Bertinotti in questi giorni abbiamo assistito a una tragica regressione del dibattito politico. Il leader di Prc ritiene che la rifondazione culturale comunista, per questo popolo guastato da individualismo ed edonismo borghesi, accorpato in un ceto medio esteso che ha smarrito essenziali virtù proletarie, potrebbe essere favorita da una Rai rigorosamente pubblica e inesorabilmente didattica: una specie di Pravda catodica. Questa enunciazione bertinottiana ha suscitato qualche protesta nello stesso centrosinistra, un parlamentare diessino con pretese riformiste ha detto che la Rai non può diventare una specie di Minculpop. Ma noi sappiamo che i comunisti sono tenaci, non si lasceranno confondere da qualche sedicente compagno. Ma perché la Rai risplenda nel suo massimo fulgore formativo (cioè, manipolatorio) è necessario imporre un rapido dimagramento a Mediaset, figlia della libertà sostenuta dal mercato. Bisogna costringerla a diventare anoressica, per decreto, anzi per «ukase», il resto verrà da sé.
Ha tante idee Bertinotti, tutte datate, anzi retrodatate. Qualcuno ha pensato di usare il leader di Rifondazione come un compagno di strada portatore di voti, ma lo stesso ha pensato Bertinotti dei suoi alleati.

E adesso non si capisce chi sia l’utile idiota di chi. Forse Romano Prodi comincia ad avere qualche dubbio?

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