Caccia al tesoro del regime: vale 200 miliardi

Un mare di soldi. Tanti quanti poteva metterne insieme il maharaja di Bangalore ai tempi di Salgari; o quanti ne hanno il sultano del Brunei e Paperon de’ Paperoni, che come ognuno sa possiede addirittura una piscina rigurgitante di monete d’oro e sacchi di banconote per i suoi bagni rigeneranti.
È il tesoro di Gheddafi. Quello a cui tutti stanno dando la caccia. Soldi serviti - e ancora servono, in queste ore cruciali, sotto il nero cielo di Tripoli, perfino ora che la Fortuna sembra avergli voltato definitivamente le spalle - a pagarsi una resistenza feroce, ottusa, accanita. A oliare una macchina da guerra in mano a una puglia di fedelissimi cui sono state fatte promesse miliardarie e a un manipolo di teste di cuoio africane pagate al giorno quanto non hanno mai visto in un intero anno passato a lavorar di mitra e di machete nel cuore nero del continente. Ma il terreno di gioco di Gheddafi, in questa partita finale col Destino, si restringe sempre più. Ieri - ed è stato come se i ribelli già esibissero il suo scalpo - è stato mostrato il bottino messo insieme in una delle ville del Capo, saccheggiata da cima a fondo. Abiti di gran lusso firmati, revolver con manici in madreperla e d’argento, intere scatole di dopobarba firmati Davidoff e Armani. Gli stessi hobby, le stesse debolezze di Saddam Hussein e di ogni boss che si rispetti.
Nessuno, naturalmente, forse neppure lui sa esattamente quanto valga il tesoro del raìs. C’è chi dice 200 miliardi di euro, ma è un calcolo che rischia di essere approssimato per difetto. Per esempio: rientrano nel calcolo le 144 tonnellate di lingotti d’oro custoditi nei caveaux della Banca Centrale libica? E i 25 miliardi di euro che secondo i bene informati il colonnello teneva pressochè a disposizione nelle sue residenze, in caso di urgente necessità di «contanti»? E il 33 per cento della «Triestina calcio», il 2 per cento di Finmeccanica, il 33 di Olcese manifatture piuttosto che il 7,5 per cento della Juventus, sono stati messi nel calcolo, o no?
Privarlo del contante, dei titoli, delle azioni; prosciugare la piscina in cui ancora nuota beato, mentre i colpi di mitra e di pistola risuonano sotto le finestre del suo bunker è fondamentale, naturalmente, per indurlo alla resa e seminare lo scompiglio tra le fila dei mercenari e indurli alla rotta. Per vedere la bandiera verde della Jamahirja sparire per sempre dai cieli del Maghreb.
È questo l’obiettivo al quale si stanno dedicando da settimane (ma il cappio si è stretto solo negli ultimi giorni) le Nazioni Unite, la Casa Bianca e l’Unione Europea. L'ultima in ordine di tempo ad annunciare che il patrimonio dei Gheddafi sarà congelato (e successivamente messo a disposizione del nuovo governo) è stata la Banca nazionale austriaca, nei cui forzieri il figlio di Gheddafi, Saif, detto «la spada dell’Islam», aveva convogliato vagoni di euro. La caccia ai beni del raìs è in pieno svolgimento anche a Londra. Secondo le valutazioni della stampa britannica, Gheddafi possiede circa 20 miliardi di sterline (qualcosa come 23,4 miliardi di euro) in conti bancari, proprietà commerciali oltre a una casa da 10 milioni di sterline nel quartiere chic di Hampstead. Alla grande retata in corso in queste ore si devono aggiungere i 30 miliardi di dollari congelati negli Stati Uniti.

C’è poi la «Gheddafi corporation», che secondo alcune stime arriva a 120 miliardi di dollari complessivi, un tumultuante fiume di soldi risultante dalla creazione di tre fondi di investimento: la Lybian investment authority (Lia) e la Lybian arab foreign investment company (Lafico) a cui si aggiunge la Laafico, finanziaria per l’Africa in cui ci trovi di tutto: dai succhi di frutta ai diamanti al legno pregiato alle ville per i nababbi del Congo. Un altro mare di soldi dove il confine tra proprietà pubblica e cassa privata della famiglia è, come dire: «cosa nostra».

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