Caduto sul lavoro, ma Sic lo sapeva

di Se uno immaginasse di poter morire a 24 anni volando a 300 all'ora su una moto dovrebbe essere così spiritoso e anticonformista (anche in funzione apotropaica, certo) da lasciare due righe di testamento e il proprio epitaffio. Nel caso di Marco Simoncelli, come in quello di chiunque scelga di fare un mestiere pericoloso, l'epigrafe potrebbe essere questa: "Me la sono cercata".
Dispiace sempre, quando un ragazzo di 24 anni muore. Dispiace anche di più se uno era simpatico, gentile, genuino e follemente spericolato come Marco Simoncelli. Ma dispiace altrettanto vedere le solite paginate di ipocrisia, le melense foto ricordo, e scoprire ogni volta che un "incidente sul lavoro", non dissimile in fondo da quelli che ogni giorno capitano a gente che lavora su un ponteggio o in fonderia, assurge a tragedia nazionale. Accade per i nostri soldati in missione in Afghanistan, trasferiti ipso facto e di diritto nei panni degli "eroi" solo per essere saltati su una mina nascosta sotto la carcassa di un cane o travestita da pneumatico. E accade per gli eroi degli sport estremi. Perché il motociclismo, così come la Formula 1, questo sono: sport estremi, "pericolosi", così come c'è scritto, del tutto inutilmente, sui pass che gli addetti ai lavori indossano nei paddock dei circuiti.
E' giusto che il mondo dello sport onori i suoi morti, che i calciatori vadano in campo con la fascia nera al braccio e che i giornali dedichino spazio a una figura che è stata molto amata dal cosiddetto pubblico. Ma "sgomento"? Perché parlare di sgomento in un caso come questo? La vera sorpresa, semmai, è che tragedie come questa di ieri in Malesia non accadano più spesso. Non sarebbe piuttosto il caso di ricordare che la velocità folle, manicomiale, sempre più esagerata e dunque "mortale" a cui gareggiano questi ragazzi è sottesa e motivata da un terrificante, infrenabile business? E che questo giro d'affari (al quale i piloti partecipano bravamente con i loro cachet milionari) ha nella morte in diretta dei "gladiatori" il sottaciuto (per decenza) ma sempre atteso brivido "finale"?
Tranquilli, comunque. Il Barnum delle due ruote, e quello, altrettanto feroce, della F1 non si fermeranno certo per la morte di questo ragazzo, così come non si fermò quando uscirono di pista per sempre Senna e Villeneuve, Pasolini e Saarinen.
Dicono che Simoncelli, detto "Sic", fosse "un bambino". E che del bambino avesse i modi, le carinerie, la sventatezza, la buffoneria. Una specie di Valentino Rossi numero 2, di cui non a caso si diceva fosse l'erede. E solo un destino beffardo e crudele poteva volere che a travolgere il naif Simoncelli fosse anche l'altro grande naif delle 500, il suo amico Valentino.
La morte di Sic («Sic transit…», dicono che lui stesso, taltolta, celiasse prendendo in giro la Morte) ricorda da vicino, l'abbiamo già detto, quella di tanti nostri soldati caduti in missione. Appartengono a Corpi che hanno motti da macho-men. "E fluctibus irruit in hostem" (dal mare irrompiamo sul nemico, per gli Incursori della Marina); "Come Folgore dal cielo", per i parà dell'omonima Brigata, eccetera.

Ma il più serio, non a caso coniato dai tedeschi, è quello dei Kampfschwimmer, i loro Incursori: "Lerne leiden ohne zu klagen" (impara a soffrire senza lamenti).
Simoncelli sapeva bene di cosa stiamo parlando. Fu lui, in un momento di amara riflessione sul rischio con cui conviveva a dire che «le gare non sono per signorine».

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