Cambiare legge elettorale? D'accordo, ma chi vince poi governi sul serio

L’apertura di Maroni: "Le firme per il referendum sono un segnale forte. Procediamo". Il Porcellum diluisce le responsabilità dei politici. Ma i cittadini vogliono chiarezza. La mossa del Cav: far slittare il referendumo per finire la legislatura

Cambiare legge elettorale?  
D'accordo, ma chi vince 
poi governi sul serio

Mentre l’economia dell’Europa si deteriora e l’Italia è ormai chiamata a compiere scelte coraggiose, nella «politica politicante» si assiste al ritorno del solito e ripetitivo dibattito sul sistema elettorale: con il redivivo Arturo Parisi che consegna gli scatoloni delle firme di quanti vogliono abolire la legge in vigore e, soprattutto, con il ministro Roberto Maroni che abbraccia i «riformatori», valorizzando il risultato conseguito dai referendari, ben oltre la soglia del milione di adesioni.
Quella delle modalità di voto è questione tutt’altro che insignificante, anche se oggi vi sono altre urgenze - dalle privatizzazioni alle liberalizzazioni - che dovrebbero monopolizzare il dibattito pubblico e il confronto politico.

Riscrivere le regole che definiscono vincitori e sconfitti è comunque un tema non secondario, dato che una migliore legge elettorale può contribuire ad aiutare il Paese a uscire dalle secche in cui si trova.
Su quali principi, però, dovrebbe poggiare questa nuova norma? Leggendo molti commentatori sembra che lo scandalo maggiore del «porcellum» stia nel fatto che un capo di partito - se lo vuole - può fare eleggere la propria igienista dentale. Ci si può legittimamente indignare per questo, ma è assurdo pensare che sia la questione cruciale sia lì.

D’altra parte, anche con i vecchi collegi uninominali la situazione non era differente, poiché in quel caso i segretari di partito inserivano i propri uomini nei collegi sicuri. Lo stesso Umberto Bossi ha esercitato il proprio nepotismo a favore del figlio non grazie a una cooptazione pura, ma mettendolo in un collegio provinciale sostanzialmente tranquillo. Chi voglia immaginare un sistema che impedisca ai capobastone di fare il bello e il cattivo tempo perde tempo; anche perché il problema fondamentale è un altro.
Chi comanda vuole poter decidere non solo e non tanto chi andrà in Parlamento. Soprattutto, vuole governare senza essere chiamato a risponderne.

Il sistema elettorale prevalente durante il quarantennio democristiano aveva proprio questa caratteristica, poiché operava una diluizione della responsabilità: con governi di breve durata, alleanze decise dalle segreterie, un gran turbinio di nomi e incarichi. E fu proprio per questo che, negli anni Settanta, il professor Gianfranco Miglio introdusse in Italia la riflessione schmittiana sul decisionismo.

All’elettore, dunque, deve soprattutto stare a cuore che dalle urne esca un chiaro vincitore con i numeri per governare. Solo così, finito il mandato, si può sapere chi è meritevole di quanto si è fatto di buono e chi è responsabile per quanto si è visto di insensato, demagogico e irrazionale.

A destra come a sinistra oggi ci si confronta sulle regole a venire con un occhio ai sondaggi: ognuno valuta i voti di cui (presumibilmente) dispone e sulla base di questo si orienta verso la soluzione più favorevole. Dietro alle analisi politologiche c’è solo il cinismo di calcoli opportunistici. La stessa uscita del ministro degli Interni sembra dettata dai tatticismi che dominano il quotidiano di chi vive di politica, ma il cittadino comune deve preoccuparsi solo di far sì che si abbia un meccanismo che attribuisca con chiarezza, oltre agli onori, anche gli oneri e la forza di agire.

Il sistema politico democratico dà ben poche garanzie (quasi nessuna) all’elettore: come già insegnavano i grandi classici di fine Ottocento: da Gaetano Mosca a Vilfredo Pareto.

Se ad ogni modo si vuole aprire una positiva discussione sulle regole elettorali e provare a caricare sulle spalle di chi governa le responsabilità che deve assumersi, è allora proprio a questi temi che si deve prestare attenzione.

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