Camille, la lucidità di un’artista condannata a essere folle

Tradotte le lettere che la scultrice francese, sorella del poeta Paul Claudel e amante di Rodin, scrisse durante il suo internamento in manicomio

Brutta cosa nascere genio. Pessima, se chi nasce genio è una donna. È il caso di Camille Claudel (1864-1943), la grande e sventurata scultrice, allieva e poi amante di Rodin, internata ingiustamente in manicomio nel 1913, e rinchiusa lì per trent'anni, senza poter lavorare, soffrendo la solitudine, il freddo, il cibo pessimo, la presenza molesta degli altri malati, finché la morte, più pietosa di quanto lo erano i suoi familiari, la libera per sempre da quella vita.
Camille non era pazza. Non c’è bisogno di certificati medici per capirlo. Basta leggere le sue lettere, che escono in questi giorni per la prima volta in edizione italiana (Camille Claudel, Le lettere, Abscondita): pagine appassionanti e terribili, percorse da una lucidità drammatica che un malato di mente non può possedere.
Certo, Camille avrà avuto qualche mania, qualche momento anche acuto di depressione. La accusavano di aver riempito la casa di gatti, e di non curare abbastanza la pulizia. Certo, si sentiva perseguitata da Rodin che, dopo essersi innamorato della sua bellezza e aver approfittato del suo talento, le aveva promesso di sposarla, ma poi non aveva mai avuto il coraggio di lasciare la vecchia Rose Beuret, sua compagna da tanti anni. Certo, avrà anche esagerato accusando lo scultore di rubarle opere e idee, e di aver fatto passare come suoi dei bronzi creati da lei, Camille (forse, però, sul furto di idee non aveva torto. Non sarebbe il primo caso).
Ma bastava questo per chiuderla in manicomio, e per trent’anni? In ogni caso, quando gli stessi medici chiedono ai familiari di riaccoglierla in casa, né la madre, né il fratello, che era poi il cattolicissimo Paul Claudel, famoso per i suoi scritti e più ancora per la sua conversione, accettano di prendersi cura di lei. Non le perdonano la relazione adulterina, e forse nemmeno la sua intelligenza, il suo anticonformismo.
Camille continua a scrivere. Chiede in modo commovente, ma pacato, di essere riaccolta in casa. Dice che le basta una stanza, non darà fastidio: con Rodin ha chiuso da tempo, non c’è più motivo di scandalo. Nessuno le risponde. Le mandano soldi, tanti, che servono solo ad arricchire l’amministrazione disonesta del manicomio, ma non vogliono fastidi. Lei non si rassegna, anche se non si fa più illusioni. «La ferocia degli Ugonotti era ben nota ai tempi del Rinascimento. Oggi le cose non sono cambiate», scrive.
Un giorno (non è un aneddoto inventato) Rodin, ricco, famoso, celebrato, si mette a piangere davanti a un piccolo bronzo di Camille.

E quando lei muore, nel 1943, il pio Claudel si lascia prendere da qualche scrupolo: «Forse non abbiamo fatto tutto quello che potevamo», osserva pensoso. È proprio vero, come diceva Renzo Tramaglino: a questo mondo c’è giustizia, finalmente...

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