Dalla campana alla caravella. Per Colombo ha dato vita e soldi

È convinto di avere trovato il reperto che annunciò la scoperta dell'America. «La Santa Maria? Si chiamava Lagallega»

Dalla campana alla caravella. Per Colombo ha dato vita e soldi

Di immersioni Roberto Mazzara ne avrà fatte migliaia. Ma una sola gli cambia la vita. Quella in cui, scavando nella sabbia, trova uno strano oggetto, che lì per lì gli sembra solo una grossa pentola. È, lui ne è convinto, la campana che annunciò la scoperta dell'America. Sì, quella suonata dall'equipaggio di Cristoforo Colombo al grido di «terra! terra!».

La scoperta di Mazzara, ingegnere di 58 anni, originario di Castronno (Varese), risale al 1994. Lui, sub professionista, è in Portogallo e quel giorno indossa muta e gav per avventurarsi al largo di Figueira da Foz attorno ai resti del San Salvador, un galeone spagnolo naufragato nel 1555. Spera di trovare qualche reperto, magari un baule pieno di tesori. Non si immagina di riportare a galla un pezzo di passato. Non solo. Lo studio appassionato di antichi documenti lo convince che anche sul nome delle caravelle qualcosa non torna. «Abbiamo studiato che Colombo viaggiò a bordo di tre caravelle: la Ninja, la Pinta e la Santa Maria. E invece no. Il vero nome della Santa Maria è Lagallega scritto tutto attaccato».

Ma andiamo con ordine, perché la storia del ritrovamento assomiglia a una vera e propria telenovela. Non appena trovata la campana, Mazzara la immerge in un contenitore pieno di acqua dolce per evitare che l'effetto combinato del sale e dell'ossigeno finissero di corroderla. E la porta a casa sua. Poi comincia a chiedersi come mai su un galeone pieno di oro, argento e monete ci fosse anche una campana senza valore e chiaramente fabbricata in Europa, quindi portata in America e ritornata indietro. Mistero.

«Nel dubbio faccio analizzare la campana a Nizza, da un ente che restaura i reperti archeologici ritrovati in mare. Mi confermano che si tratta di un oggetto molto antico. Un docente di archeometallurgia dell'università di Bologna stabilisce che il metallo era rimasto in mare più di quattrocento anni». Con i brividi addosso alla sola idea di avere tra le mani un pezzo della storia delle storie, Mazzarra si rivolge al governo portoghese e al direttore del servizio di archeologia subacquea del Portogallo. Senza tuttavia ottenere risposte. Allora scrive alla Casa Reale spagnola dicendo di volere regalare il suo ritrovamento, senza nulla in cambio se non un documento in cui gli si riconosce il merito della scoperta e una cerimonia ufficiale di consegna. Giusto per la soddisfazione di avere contribuito a salvare una fettina di uno dei capitoli più avvincenti della storia. Niente, la corona non accetta.

Insomma, della campana sembra non importare nulla a nessuno. Mazzara allora decide di fare un accordo con una casa d'asta di Barcellona per mettere all'incanto il reperto. E cominciano i guai. Qualche giorno prima dell'asta arrivano tre poliziotti in borghese, mostrano il mandato internazionale per appropriazione indebita di reperti storici e sequestrano la campana.

Risultato: per difendersi dall'accusa di furto, si fa seguire da un avvocato, affronta una causa che va avanti anni e che gli costa, tra trasferte a Madrid e tutto il resto, oltre centomila euro. «Durante il processo io mi sento totalmente in buona fede», spiega il sub che inaspettatamente si trova davanti ai giudici spagnoli a giustificarsi. «Ho informato le autorità portoghesi del mio ritrovamento, ho offerto la campana al re di Spagna. Inoltre dal momento della mia denuncia passa più di un anno, il tempo previsto dalle leggi della Comunità europea che regolano il diritto di proprietà di oggetti ritrovati fortuitamente perché qualcuno ne reclami il possesso».

Mazzara alla fine viene scagionato. Oggi non ha idea di dove sia la campana. Ma non ha rimpianti. Anzi. Pur avendoci rimesso un bel po' di soldi, da quel giorno si mette a studiare con una passione da archivista che gli era sconosciuta. Lui, uomo di formule e numeri, improvvisamente si trova tra le mani documenti cinquecenteschi scritti in spagnolo antico. E ribalta totalmente le informazioni che gli avevano insegnato a scuola. «Non ho mai rinunciato a raccontare i retroscena della storia. Anche se all'inizio non ne ero consapevole, mi sono reso conto, grazie ad alcuni documenti, che quella campana corrosa e bucata un valore ce l'aveva eccome - spiega -. Ho fatto qualche ricerca sul galeone San Salvador e a Lisbona, nell'archivio della Torre do Tombo ho trovato un documento che parlava di alcuni oggetti legati alla nave capitana di Colón, cioè di Colombo».

Poi spunta anche un documento in cui si scrive che l'imballaggio di quella campana navale era costato 32 pesos, una cifra piuttosto elevata, che corrispondeva a un anno di paga di un marinaio. Investimento che quindi non viene fatto per lo stoccaggio di un oggetto qualunque. «In seguito - racconta Mazzara - nell'archivio das Indias di Siviglia, ho trovato un paio di lettere di Luis Colón, nipote di Colombo, che scriveva al figlio all'imperatore Filippo II. Voleva fare fronte ai suoi debiti cercando di trarre profitto dalla vendita dei reperti del nonno, tra cui i suoi diari e la campana che fece imbarcare sul San Salvador. Dopo il naufragio della nave chiese persino un risarcimento di mille ducati. E in quella lettera parla de Lagallega, non della Santa Maria».

Lagallega sta per La Galiziana. Solo dopo un secolo nei documenti si è cominciato a parlare della Santa Maria, mentre i nomi delle altre due caravelle vengono nominati più e più volte.

«Mi sono fatto l'idea che è la Spagna a non avere voluto legare la scoperta del Nuovo Mondo alla Galizia, regione che periodicamente rivendicava autonomia e indipendenza, dove si parla una lingua più simile al portoghese che al castigliano». Il sogno dell'ingegnere varesino è ridare il suo vero nome alla nave che nel 1492 si arenò sulla spiaggia del San Salvador.

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