Politica

Cancro alla prostata l’unica arma è la prevenzione

Ignazio Mormino

da Milano

Per la prima volta, in un congresso medico di altissimo livello - quello sul tumore prostatico, organizzato e presieduto dal professor Francesco Rocco - si parla di gatti e di tigri. Il riferimento è didattico: la «tigre» è il carcinoma aggressivo, devastante; il «gatto», invece, è il carcinoma che avanza lentamente (con ironia, il professor Rocco lo definisce «indolente»). Nell’un caso e nell’altro, comunque, si tratta di un nemico che bisogna conoscere subito, se davvero si vuole sconfiggere. Per questo sono accorsi a Milano (dagli Stati Uniti, dall’Europa e perfino dalla Cina) i più grandi specialisti della materia, ciascuno con una «novità» degna di attenzione. Il congresso, che si conclude domani, è destinato a restare nella storia dell’urologia per il suo spirito cartesiano, per la volontà di rispondere, con dati certi, ai dubbi che costellano questa patologia.
Prima, amara considerazione: l’incidenza del tumore prostatico deve essere corretta «al rialzo» (in Italia è di cento casi ogni centomila abitanti, negli Stati Uniti di 150). La sua diffusione cresce ogni anno e - fatto ancor più grave - viene trovato in soggetti morti per altre cause sottoposti ad autopsia, soggetti anche giovani: nei trentenni in otto casi su cento, nei cinquantenni in cinquanta casi su cento. Certo, questa percentuale è destinata a crescere col crescere dell’età.
Appunti diagnostici trasmessi da molti relatori: la «rivoluzione» del Psa, un antigene scoperto nel 1979, può - anzi deve - essere perfezionata: bisogna estendere questo importante test diagnostico ai soggetti sani. L’americano Thompson, infatti ha dimostrato che non esiste un «livello di sicurezza» e che anche soggetti apparentemente sani, e asintomatici, possono essere portatori d’un carcinoma prostatico. Da qui l’inquietante interrogativo: più si cerca più si trova? Il professor Rocco, allievo di un grande maestro come Pisani e oggi direttore della Prima clinica urologica dell’Università di Milano, risponde: «Dobbiamo certamente rivedere i dati epidemiologici, partendo dalla considerazione che in moltissimi casi il tumore prostatico non dà sintomi di rilievo».
Non esiste neppure una «soglia», come hanno dimostrato gli studi autoptici. C’è però un’età di massima concentrazione: dai sessant’anni in poi; ma è consigliabile controllare lo stato della prostata (comunque ipertrofica, a una certa età) anche a cinquant’anni, con visite annuali. Questi controlli devono essere più frequenti se nella famiglia cui si appartiene ci sono stati soggetti colpiti da questa neoplasia. Oggi il tumore della prostata è nel maschio il secondo in ordine di frequenza, superato soltanto dal carcinoma al polmone. La diagnosi precoce riduce notevolmente l’esito mortale.
Il congresso milanese ha voluto fare chiarezza anche sul versante terapeutico. È stato ribadito che in oltre la metà dei casi viene eseguita la prostatectomia radicale, che consiste nell’asportazione della ghiandola. Esiste una possibilità di trattare questa patologia con una associazione di tecniche: per esempio radioterapia più chirurgia o chirurgia più terapia ormonale con farmaci antiandrogenici. È stato naturalmente ripetuto che non esistono «dogmi» neppure in terapia. Ogni decisione deve essere correlata all’età del paziente, alle sue condizioni generali (cardiopatie, malattie concomitanti) e allo stato di avanzamento del carcinoma.

Ma la prevenzione resta l’arma più efficace.

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