Un cane l’incursore più coraggioso: entra per primo nel covo di Osama

Venti minuti per cinque metri quadrati di bersaglio, nessun errore ammesso. E lui lo sa. La squadra ha provato e riprovato, ma lui ha il compito più difficile: aprire la strada ai soldati. Gli umani non ce l’hanno il suo fiuto, nè la sua vista. Forse neppure lo stesso sangue freddo.
Ad Abbottabad, contro Bin Laden, c’è anche il «Seal» a quattro zampe, in prima linea con agli altri 80 super soldati. Le autorità americane non vogliono svelare la sua identità, la sua razza, la sua storia. Tutto deve restare coperto da segreto militare, come per gli altri soldati. Eppure si sa che quella notte lui è stato determinante per l’operazione. Armato di speciale tuta impermeabile, con la webcam e l’altoparlante, per essere in costante ascolto con gli altri soldati, per garantire la visuale anche agli altri. Lui per primo, gli altri dietro, lui a scovare trappole, gli altri con i fucili pronti all’assalto, lui a fiutare gli esplosivi interrati o applicati a porte e maniglie in meccanismi trappola, gli altri a bloccare i nemici. Pronto a tutto, pronto a tutto nel caso in cui Bin Laden si fosse nascosto in un rifugio sotto terra o dietro qualche parete. Lui come Remco, il cane che nel 2009 era riuscito ad ottenere la Silver Star, una delle onorificenze militari più prestigiose assegnate dalla Marina americana, per avere contribuito in modo determinante alla cattura di un ribelle. Sono 600 i cani che affiancano le truppe statunitensi impegnate in Afghanistan e in Irak. E’ lo stesso generale David Petraeus, comandante del contingente americano in Afghanistan che dice: «Le loro abilità durante un combattimento non possono essere replicate da un uomo o da una macchina».
Indispensabili e insostituibili, salvatori di vite umane, impiegati nelle guerre da sempre. Come testimonia il libro I cani in guerra, di Giovanni Todaro, per Oasi Alberto Perdisa, basta sfogliarlo per rendersi conto che la storia dell’uomo è legata in modo indissolubile a quella del cane che lo ha sempre affiancato sacrificandosi per lui, nel bene e nel male, in pace e in guerra. Già nel 400 i cani venivano impiegati nelle operazioni belliche, così come succede oggi, con l’uso di unità cinofile specializzate in Irak, Afghanistan. Sfogli il libro e li ritrovi sentinelle in foto sbiadite in bianco e nero della prima guerra mondiale. Lui con le orecchie ritte, con il suo corpo ben esposto al nemico, capace di vedere un obiettivo, con il divieto assoluto di abbaiare, solo di mugugnare per avvertire il soldato accucciato in trincea. Guardi più indietro e trovi un cane che fa tenerezza, schiacciato dal peso della lettiga, dentro c’è un soldato ferito, da portare al campo. Trovi le immagini dei 151 cani utilizzati dall’esercito statunitense nella seconda guerra mondiale addestrati a portare ordini, con i messaggi legati al collo, a nascondersi dal nemico, filare dritto al destinatario, vedere senza farsi scorgere, avanzare e sfruttare al massimo le coperture. C’è anche una foto del 1938 che fa commuovere: un cagnolone cicciottello, si intitola «La corsa contro il mostro d’acciaio».

Lui che corre come un forsennato, il suo nemico è lì, grosso e spaventoso: è un carro armato. Lui non si ferma, addestrato per andare avanti, fino alla fine.
Lo sapeva bene anche Napoleone Bonaparte che molti anni prima aveva detto: «Qui, signori, un cane ci insegna una lezione di umanità».

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