Salvo Mazzolini
da Berlino
All'indomani del voto, Berlino sembra una capitale mediterranea in preda al caos politico: Parlamento privo di maggioranze credibili, veti incrociati tra i partiti, litigiosità al massimo tra i leader politici, spettro di nuove elezioni. Neppure una traccia dell'invidiabile governabilità che per oltre mezzo secolo è stata il fiore all'occhiello della Germania federale. Tutto viene rimesso in discussione: dal sistema elettorale che non sarebbe più capace di produrre maggioranze stabili, alla stessa Costituzione che non offrirebbe indicazioni precise su come uscire dall'incertezza creata dal voto di domenica. Il litigio più clamoroso è esploso su chi ha diritto ad occupare la poltrona di Cancelliere.
Schröder non fa che ripetere che non vede nessun motivo per lasciare la «Waschmaschine», come i berlinesi chiamano l'edificio della Cancelleria per la sua somiglianza ad una lavatrice. Angela Merkel ritiene invece che spetti a lei occupare quel posto. Entrambi hanno buoni argomenti a loro favore. I socialdemocratici, il partito di Schröder, sono quelli che hanno perso di più (da 38 a 34%) ma formalmente Schröder è sempre il Cancelliere in carica poiché, astutamente, non si è mai dimesso neppure quando volutamente provocò un voto di sfiducia per arrivare allo scioglimento del Bundestag e a nuove elezioni. E la Costituzione prevede che un Cancelliere rimanga in carica fino a quando non ci sia una nuova maggioranza che attualmente non c'è. È una norma studiata per evitare crisi al buio.
La Merkel ritiene invece che gli elettori abbiano espresso un chiaro mandato a suo favore perché è il suo partito, la Cdu, con oltre il 35%, che ha conquistato la maggioranza relativa. Quindi tocca a lei diventare Cancelliere. Il punto debole di entrambi è che sono usciti dal voto senza una maggioranza e trovare nuovi alleati si sta rivelando un'impresa titanica.
Ieri comunque sono iniziate le grandi manovre. L'ipotesi più ovvia, quella di una Grosse koalition tra i due maggiori partiti, sembra impraticabile proprio per il litigio su chi deve essere Cancelliere. Nessuno dei due intende mettersi da parte e tanto meno fare il vice dell'altro. E allora? Allora si battono altre strade. Per esempio quella di una coalizione semaforo, così battezzata perché sotto la guida di Schröder ne farebbero parte i socialdemocratici (rossi), i Verdi e i liberali (il cui colore è il giallo). Ma i liberali hanno già risposto con segnali negativi: durante la campagna si sono schierati con la Merkel per una coalizione di centrodestra, hanno avuto un buon risultato (dal 7 a quasi il 10%), da fanalini di coda sono diventati il terzo partito e ora non intendono fare giri di valzer: gli elettori appena conquistati non gradirebbero.
Nella frenetica ricerca di nuove alleanze, si batte anche la strada della soluzione Giamaica, così chiamata perché ipotizza una coalizione che avrebbe gli stessi colori della bandiera dell'isola caraibica. Sotto la guida della Merkel, ne farebbero parte i cristianodemocratici (il cui colore è il nero) più i gialli e i Verdi. Ma le possibilità di successo sono considerate scarse per l'incompatibilità storica tra Verdi e liberali sul problema del nucleare.
Sia Schröder sia la Merkel ripetono che pur di dare un governo al Paese sono pronti a parlare con tutti. Con tutti salvo che con due signori: con Oskar Lafontaine e Gregor Gysi, i due leader del Partito di sinistra, formato da postcomunisti e da socialdemocratici usciti dal partito per protesta contro le riforme di Schröder. Lafontaine e Gysi si considerano tra i vincitori del voto e non a torto. Il nuovo partito ha avuto oltre l'8% sul piano nazionale, ma nei länder dell'est ben il 25%. Ma i loro voti rischiano di rimanere in frigorifero. Con Gysi non si parla perché nel partito rappresenta la parte nostalgica dello Stato comunista. Quanto a Lafontaine, poi, c'è una chiusura totale da parte di Schröder che considera Lafontaine l'animatore di quella fronda massimalista che gli ha sempre reso la vita difficile.
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