Una mostra di soli capolavori certi? Le ventotto opere di Michelangelo Merisi visibili sino al 13 giugno negli spazi delle Scuderie del Quirinale lasciano spazio a pochi dubbi attributivi. Ci ha provato Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani, a mettere in po’ di pepe sulla conferenza stampa, manifestando qualche perplessità residuale sulla Cattura di Cristo scoperta da Sergio Benedetti presso una comunità religiosa irlandese nel 1990. Ma chi ricorda la versione di questo stesso soggetto conservata a Odessa, o quella di collezione privata fiorentina portata da Roberto Longhi alla mostra milanese del 1951, non potrà non concordare sulla qualità molto più alta della tela dublinese.
Più problematico è il disegno complessivo della figura del Caravaggio che esce del catalogo edito da Skira. L’intento di affidare ciascun’opera al saggio di un diversa firma, in una vera e propria all star degli specialisti (con il «caso Balotelli» della mancata «convocazione» di Maurizio Marini), ha comunque prodotto un ritratto schiacciato sulla visione del Merisi proposta da Maurizio Calvesi e dalla scuola di studi romana, in cui non c’è traccia dell’impostazione alternativa di un «Caravaggio scienziato ante litteram», inscritta nella linea di ricerca tracciata dal massimo «rivale» di Calvesi, Ferdinando Bologna.
Contro il mito maudit di un artista prefigurante la sensibilità e i comportamenti di Pasolini, viene così confermata in sostanza un’altra lettura egualmente infondata: il pittore affiliato a un’ala sinistra della Controriforma, pauperista e informata alla lezione di Filippo Neri e Cesare Baronio, accolito di Federico Borromeo e abituato a infilare nei propri dipinti ogni genere di simbolo e allusione cristica, dai grappoli d’uva nera «come allusione al sacrificio di Gesù» a quelli di uva chiara «come notorio simbolo positivo di questo sacrificio».
Disarmati da un’ossessione iconologica alla luce della quale persino la sensualità del Bacco è «allegoria del Cristo», restiamo convinti che il limite maggiore di questo Caravaggio stia proprio nel non riconoscere il suo approccio straordinariamente innovativo alla raffigurazione del fatto sacro. Invece d’indulgere nei campi lunghi e nelle scenografie da action movie della figurazione manierista, Michelangelo Merisi stringe l’inquadratura. È come se avessimo a disposizione, per la prima volta nella storia della pittura, un schermo Lcd ad alta definizione. Con la sua pennellata mimetica della realtà, Caravaggio aumenta all’ennesima potenza i pixel delle proprie istantanee. Non sa fare la pittura d’azione, perché non ha nel proprio background una solida pratica disegnativa. Lascia allora stare l’invenzione, e si affida solo all’occhio, come unico filtro tra il gesto e la verità della natura. Sceglie un fondale neutro, e prova a incarnarsi nel mistero degli episodi delle Scritture attraverso la formidabile qualità investigatrice della luce. È il primo a chiedersi, come un moderno detective, come sono andate davvero le cose. Sbatte il Sacro in prima pagina. Perché a Emmaus i discepoli non hanno riconosciuto il Cristo? Forse perché era senza barba, come nella Cena della National Gallery. O perché era buio pesto, come in quella di Brera. E però non rinuncia a comporre, a proporci una sorta di iperrealtà, ancora più leggibile, come un tableaux vivant.
Emblematico è il saggio ancora di Antonio Paolucci, sulla Deposizione della Pinacoteca Vaticana. L’opera stava proprio nella chiesa degli Oratoriani, Santa Maria in Vallicella, e costituisce così il caposaldo della lettura di un Caravaggio instradato dal pensiero di San Filippo Neri. «Cominciamo così col dire che il termine iconografico con cui il quadro è conosciuto è solo genericamente corretto», scrive Paolucci, spiegando che il corpo del Cristo sta per essere appoggiato sulla lapis unctionis, il letto marmoreo in cui, nel rito giudaico, veniva appoggiata la salma per essere lavata, unta e profumata, prima dell’inumazione. Si tratterebbe dunque di una scelta iconografica inedita, che fotografa un momento successivo alla Deposizione e immediatamente precedente il compianto sul Cristo morto. Osserviamo però l’anomala angolazione della scena, con il modello che indossa le vesti del Nicodemo (e che non ci sembra, come ritiene invece Paolucci, un ritratto del committente defunto Pietro Vittrice, dal momento che lo stesso «figurante» compare nei panni di Tommaso nell’Incredulità di Postdam) costretto all’ultimo momento a una strana torsione, probabilmente per seguire con gli occhi il pittore.
No, guardando alla posizione trasversale del corpo rispetto alla pietra, e a come i personaggi disposti a ventaglio si addossino in pochissimo spazio al margine di una sorta di baratro, si intuisce che Caravaggio, scelto un angolo di visuale ribassato, ha deciso di rappresentare proprio il momento in cui la salma viene calata nella fossa. Lo slittamento laterale dell’inquadratura, con il possibile spostamento del cavalletto dell’artista all’ultimo momento, è provato indirettamente anche dal fatto che Rubens, nel copiare l’opera, ha spostato in avanti e all’esterno Giuseppe d’Arimatea, accorgendosi che i pesi compositivi erano sbilanciati, e il corpo di Cristo sembrava quasi fuggire alla presa del discepolo.
*Autore di Caravaggio
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